Il dopo europee è di mal di pancia diffusi, fra i vinti è psicodramma, fra i vincitori rischia di essere farsa
Nelle giornate immediatamente successive alle elezioni, da sempre, i partiti più che analizzare il risultato regolano i conti interni. Siano essi vincitori che vinti, il rimescolamento di poltrone è certo, “poltrone” premio nel primo caso, eiettabili come quelle della Aston Martin di James Bond nel secondo. Ovviamente difficilmente questo dibattito avverrà alla luce del sole. Guardiamo il M5s, un tracollo annunciato che dopo mesi di servilismo, reale o percepito, ai desiderata del loro partner di governo, era più che prevedibile. Il MoVimento in sostanza ha pagato a caro prezzo il suo dichiararsi post-ideologico, “né di destra né di sinistra” dicevano con orgoglio di chi, beata ignoranza, non capisce di cosa sta parlando. Così si sono trovati a loro, quasi, insaputa a reggere il moccolo alle peggiori politiche destrorse che Italia abbia mai visto. Di Maio salito festante, ma da apprendista, sul carro del Governo con una forza identitaria come il Carroccio, ne è rimasto schiacciato. Tutto è avvenuto in maniera evidente durante i primi nove mesi a Palazzo Chigi. Il vicepremier pentastellato ha dovuto far digerire ai propri elettori il sì all’Ilva e al gasdotto Tap in Puglia, il primo decreto sicurezza, il salvataggio di Salvini sul caso Diciotti. Poi sentendo odore di voto ha adottato una strategia comunicativa dei distinguo aggressivi dalla Lega, opposizione improvvisata al Governo di cui si faceva parte. Ma non ha capito che gli elettori hanno compreso subito che la recita era modesta, indegna del peggior artista d’avanspettacolo. Una tardiva virata a sinistra, risultata decisamente poco credibile. Ma la debacle non è stata costruita in realtà solo nell’ultima fase, ma dalla linea serpeggiante attuata, prima dal puntare i piedini con Mattarella per diventare premier e poi, dalla stesura del contratto di Governo in avanti, sempre in bilico tra moderazione apparente ed estremismo conto terzi. Una azione ondivaga tra la voglia di accreditarsi presso i poteri che contano, dal Vaticano alle lobby, e i tentativi di recupero dell’anima movimentista delle origini, partiti con i festeggiamenti per il 2,4% di deficit-Pil (poi sconfessato) e culminati con l’abbraccio suicida ai gilet gialli, prontamente ripudiato. Come non ricordare poi le performance comiche di Toninelli. E tornando a Di Maio della presunzione, neanche fosse un novello Messia, di aver “sconfitto la povertà” annunciandolo dal balcone di palazzo Chigi alla folla osannante dei suoi parlamentari. Ce ne sarebbe abbastanza per una epurazione, ma come è prevedibile, oggi verrà utilizzato il metodo “Tomasi di Lampedusa”, quella spiegazione gattopardesca che ci racconta che in Italia tutto cambia perché nulla cambi, perchè se tutto cambia esteriormente, tutto rimane com’è, e se tutto rimane com’è, tutto può cambiare interiormente in un loop indecente. Insomma non accadrà nulla o quasi, almeno esteriormente, perchè c’è da scommettere che difficilmente Di Maio & C avranno il coraggio di mandare gambe all’aria le loro poltrone, anche se forse sarebbe la soluzione più dignitosa, perchè il MoVimento conta, ma contano decisamente di più le sorti dei ministri, di quegli oltre trecento parlamentari e della corte dei miracoli di collaboratori che come ogni gruppo parlamentare si trascina dietro. Insomma siamo nel solco del “quando ci ricapiterà” unica verità “politicamente corretta” espressa dal capogruppo del M5S in Campidoglio Marcello De Vito mentre parlava con il suo amico e forse socio, l’avvocato Camillo Mezzacapo. Lui è stato arrestato. Certo De Vito è stato defenestrato dai 5 Stelle, ma non prima di compire chissà quali danni. Il problema dei pentastellati è che ora dovranno valutare “costi benefici” della loro permanenza al governo sul piano politico, ma costi e benefici anche per ognuno di loro sul piano personale che in massima parte lo scranno a Montecitorio o Palazzo Madama se lo potranno dimenticare, vuoi perchè le percentuali di una eventuale tornata elettorale rischia di essere meno generosa, vuoi per la regola dei due mandati che pende come una spada di Damocle sulla loro testa. Aggiungiamo poi che per molti si aprirebbero le porte della disoccupazione e probabilmente del “reddito di cittadinanza” ma non prima di aver superato, giusta punizione, il percorso ad ostacoli burocratico-finanziario che hanno loro stessi creato.
Ma se per Di Maio & C la situazione è complicata, drammatica, per il socio contrattuale Salvini non è che sia una passeggiata di salute. In primo luogo perchè per gli elettori del terzo millennio la stabilità del voto ha tempi “social”, la croce sulla scheda è espressa come un tweet solleticato da chi l’ha sparata più grossa, e non è quindi detto che la croce di oggi cada sul medesimo simbolo domani. In secondo luogo sa bene, Matteo, che un matrimonio con “Fratelli d’Italia” oltre ad apparire in qualche modo incestuoso, potrebbe non bastare a raggiungere la maggioranza parlamentare utile a governare in sicurezza. In terzo luogo, lui, il comandante, di tornare ad imbarcare Berlusconi non ci pensa nemmeno. Perchè sa che il “Silvio” nazionale non è commestibile come la “pastiera napoletana” etichettata “Gigino”. Silvio è più come un panettone dimenticato nella madia da anni, talmente stantio da diventare pesante ed indigeribile.
Anche dalle parti del Nazzareno le cose non sono semplici, ma il Pd per ora tira un sospiro di sollievo e non solo perchè, come ha detto Zingaretti “siamo vivi”, ma perchè il segretario sa di aver corso il rischio di schiantarsi ancora prima di iniziare a correre. “Prima eravamo terzi, marginali e moribondi, oggi siamo il pilastro di un’alleanza che rappresenta l’alternativa. E’ una partita lunga, ma si è riaperta”. Bene per lui che ostenta sicurezza, anche se le “anime” interne al Pd sono tenute insieme, per ora, dalla convenienza di fare fronte comune difronte al nemico sovranista. Ma nel momento in cui si dovesse parlare di alleanze di governo siamo certi scatterebbero ostracismi e possibili nuove scissioni. Zingaretti lo sa, ma sa anche che per ora nessuno ha alternative vere o meglio di una qualche consistenza e anche Calenda che ha passato la compagna elettorale a propagandare il suo “siamo europei” non è ancora certo di poter contare negli appoggi che servono in una fuga verso un centro che ultimamente respinge più che attrarre. Per il resto guardando quanto accaduto alla sua sinistra Zingaretti sa che il pericolo non arriva da quella parte. Articolo Uno di Speranza & C cercherà di marcare il proprio territorio rimanendo però limitrofo al Pd di Zingaretti, sperando magari che la stella Calenda si spenga presto come una nana bianca o magari vada a brillare fiocamente da un altra parte. Del resto Articolo Uno di più non può fare visto che, alle politiche del 4 di Marzo, componente di Leu non aveva sfondato e non trovando nei mesi successivi con Sinistra Italiana, quella coesione che gli poteva consentire comunque di creare un nuovo embrione a sinistra è tornata, pur dignitosamente, nell’orbita Pd per fare fronte comune europeista. Sinistra Italiana ha ritrovato una unità di comodo con Rifondazione comunista, che prima era con Potere al Popolo, lanciando la lista “La Sinistra”. Il risultato è stato disastroso. Il peggiore di sempre per quest’area. Motivo? Basti dire che negli ultimi 11 anni agli elettori di sinistra si sono presentate una quantità infinita di nomi e sommatorie algebriche di liste e listini (Sinistra arcobaleno, Sinistra Ecologia Libertà, Lista Tsipras, Sinistra Italiana, Liberi e Uguali… La Sinistra), il risultato è stato di perdere a ogni tornata un pezzo di elettorato, fino al quasi annientamento di domenica scorsa che lascia fuori dall’Europarlamento sia la lista di Fratoianni, sia i Verdi con i quali non si era riusciti a trovare alcun accordo. Fra l’altro matematica dice che la somma “la Sinistra” – Verdi sarebbe stata proprio attorno al 4 per cento. Diciamo che in una condizione politica sensata, anche alla sinistra del Pd, dovrebbe scattare la resa dei conti. Ma non sarà così, perchè quell’area in realtà da anni è in resa dei conti perenne e anche per loro vale quanto detto sul “cambiare tutto per non cambiare nulla” e ormai i militanti ci hanno fatto il callo. Serietà vorrebbe invece di sciogliere ogni gruppo dirigente e “sciogliersi”, come si diceva alcune decenni fa, nei movimenti. Forse così, ricostruendo qualcosa dal basso si accenderebbe la speranza. Bisognerebbe però introdurre una regola ferrea, chi ha avuto ruoli dirigenziali, soprattutto di natura elettiva, può partecipare, ma non più essere candidato, insomma una deroga al contrario. Ma c’è poco da credere che questo potrà avvenire. Un peccato per il popolo della sinistra, compresi i tanti che vinti dalla nausea di votare, magari dopo un passaggio pentastellato, alle urne non ci andranno più. Molti saranno tentati di giustificare intellettualmente la propria scelta affermando di non votare per paura di “legittimare” il sistema di potere in odore di neofascismo. Un “Aventino” di massa, come se il potere avesse bisogno di legittimazione e non si accontentasse della rinuncia a delegittimarlo. Del resto non si trova nella storia notizia di poteri fatti cadere dall’inerzia o dall’ignavia degli elettori. Se quindi proprio decidete di astenervi dalle urne abbiate la compiacenza dire di avere avuto meglio da fare, farete migliore figura. Se poi pensate che la situazione sia grave e che l’Italia non meriti di nuovo una destra pericolosa al potere, sarà necessario turarsi il naso ed ogni altro orifizio e spingere perchè una nuova resistenza, magari come fu per il Cln, faccia fronte comune, abbandonando per una volta la “purezza” ideologica, perchè il rischio che degli ultimi, ad una certa maggioranza di italiani, non interessi nulla è fortissimo ed è certo per una certa classe dirigente di destra.
Fabio Folisi