Il lato oscuro dell’accordo con la Cina, tutti con Greta, ma gli affari sono affari

Venerdì 15 marzo tutto il mondo si è stretto intorno a Greta per la difesa del pianeta Terra dal cambiamento climatico. I giovani hanno cominciato a chiedere un po’ di futuro ed azioni immediate per costruirlo.
I rappresentanti del potere, spesso con i più incredibili “individui” nel campo dei politici e comunicatori si sono messi ad ascoltare cospargendosi di cenere, o meglio, individuando colpevoli possibilmente lontani.
Un amico mi ha aggredito: “ la colpa è vostra, verdi e ambientalisti, perché non siete riusciti a convincere il popolo che avevate ragione”. Può essere, ma, al di là del rimbrotto in buona fede del mio interlocutore, fa rabbia sentir dire cose, già perfettamente chiare 25 anni fa, da coloro che hanno fatto di tutto per sottovalutarle e metterle nei cassetti.
Ma questa è storia politica che non vale la pena rivangare.
Può invece essere utile fare il punto sulla schizofrenia con cui si affrontano molti fatti di cronaca, con ricchezza di diversità di posizione ma sempre trascurando ogni rapporto con il riscaldamento climatico.
La questione cinese è oggi al centro dell’attenzione in Italia, e ancor più direttamente in Regione, visto il ruolo che vi dovrebbe svolgere il porto di Trieste e di conseguenza tutto il sistema infrastrutturale dei trasporti in F-VG.
Cinesi si, cinesi no, conseguenze strategiche e geopolitiche, effetti sul sistema produttivo locale, ed inoltre sono comunisti statalisti: sono questi i termini del confronto che imperversa su tutti i media, divide il governo e le categorie economiche e sociali.
Nessuno si domanda se la logica del progetto “belt and road iniziative” va nella prospettiva della “salvaguardia del clima” o, eventualmente, a quali condizioni può diventarlo. Si dà per scontato che la crescita dei commerci, e quindi della quantità di merci che girano per il mondo, sia una condizione indispensabile per mantenere ritmi di crescita dell’economia, senza i quali tutti moriremmo di inedia. Quando si parla di PIL, il nemico non è l’aumento della temperatura terrestre ma il rischio della “decrescita”, o, per dirlo più accademicamente, della “stagnazione”.
Il nodo della discussione sull’affaire Italia-Cina pare sia diventato il chiedersi a quali condizioni l’aumento di infrastrutture di relazione può permettere non solo ai prodotti cinesi di invadere meglio l’Italia e l’Europa, ma anche a quelli nostrani di propagarsi analogamente in Cina.
Non ho sentito alcuna voce porsi il problema della necessità di mettere condizioni e limiti ai flussi internazionali delle merci tranne per i casi catalogabili in condizioni di dumping che determinano quindi una concorrenza sleale. Si parla talvolta di dumping ambientale ma non certamente in relazione diretta all’aumento della febbre planetaria. E spesso ne deriva la richiesta di ridurre i vincoli per i nostri prodotti per gestirne meglio la presenza sui mercati.
Questo discorso non vale solo per la Cina ma vale in generale e riguarda tutte quelle condizioni che un WTO serio dovrebbe imporre per iniziare realmente un cammino di riduzione della crisi climatica.
L’Italia sta per firmare con la Cina un “memorandum” che la suo interno contiene decine di contratti economici, quindi si tratta di un vero e proprio programma di interventi.
Quando ero quasi giovane, in Europa ci si inventò uno strumento di valutazione chiamato VAS, Valutazione Ambientale Strategica, il cui obiettivo era quello di disporre di misurazioni sugli aspetti sociali, economici ed ambientali degli atti di programmazione e pianificazione. Fu emessa una Direttiva europea ed ogni stato membro la recepì nella propria legislazione.
Chi conosce questa materia per averla praticata sa che perlomeno in Italia tale procedura fu depotenziata man mano ed oggi è diventata una mera pastoia burocratica, a partire dalla impraticabilità dei percorsi di partecipazione per i cittadini ivi previsti.
In un mondo diverso qualche ingenuo potrebbe rivendicare che proprio atti come l’accordo tra Italia e Cina dovrebbero essere sottoposti ad una stringente valutazione strategica, in particolare sugli aspetti ambientali riferiti al clima ed alle cause che stanno determinando il cambiamento. Ma la cosa è considerata del tutto secondaria da un mondo che si preoccupa soprattutto della prossima leadership capitalistica mondiale della Cina basata su un nuovo ciclo di produzione materiale, sopravanzando la finanziarizzazione dell’economia attualmente in mano delle società USA.
Stiamo cioè discutendo se passare dalla speculazione e dalla rendita sulle risorse umane e materiali della Terra ad un loro diverso utilizzo per la produzione di nuove quantità di beni e servizi; dove appare esserci ampio spazio anche per le nuove forme di capitalismo di stato e probabilmente per una ripartizione più equa delle ricchezze che si producono.
Non mi pare che tutto questo cambi molto per chi ritiene che ormai la Terra è una nave spaziale al cui equipaggio di comando è sfuggito il controllo del tragitto e che sta dirigendosi rapidamente verso l’autodistruzione.
Da questo deriva un consiglio per Greta e tutti i giovani che si preoccupano per il loro futuro. La lotta per i cambiamenti climatici non è un pranzo di nozze, la buona volontà dichiarata in giro è quasi sempre un modo per far tacitare le proprie coscienze, i corretti comportamenti individuali sono importanti ma non bastano, e le questioni dei “grandi della terra” vanno spesso nella direzione opposta.
Il clima cambia, la Terra si riscalda al di là di ogni previsione, ma gli affari sono affari!

Giorgio Cavallo