Il neonazismo nella Germania dell’Est: Eravamo come fratelli in libreria dall’11 settembre
L’11 settembre sarà disponibile in tutte le librerie il romanzo del pluripremiato giornalista tedesco Daniel Schulz “Eravamo come fratelli”, tradotto da Federico Scarpin.
“Eravamo come fratelli” è un romanzo che ci porta nel 1989, il Muro di Berlino sta per cadere e la DDR è al tramonto. Quattro bambini discutono un piano per rubare una pistola e scatenare una guerra contro la Germania Ovest. La guerra non scoppia, ma nel giro di poco la Germania Est cessa di esistere lasciando smarriti i suoi abitanti. Un romanzo di formazione al contrario, che si legge trattenendo il fiato mentre la narrazione si fa sempre più inquietante e dura e il protagonista, da giovane ingenuo e timido, si vede circondato da amici che collezionano cimeli del Terzo Reich, scatenano risse e si rasano i capelli a zero coltivando idee antisemite. Come è possibile che i pionieri del socialismo crescendo si trasformino in neonazisti e picchiatori? Un romanzo poetico, crudo e politico, descrizione magistrale dei giovani nati in DDR e cresciuti durante gli anni Novanta con il mito dell’Occidente e le svastiche tatuate sul petto.
Il libro sarà presentato con la presenza dell’autore giovedì 19 settembre a Pordenonelegge e venerdì 20 settembre a Dialoghi a Trani.
Daniel Schulz dirige la sezione di reportage e giornalismo investigativo del quotidiano tedesco “Die Tageszeitung”, occupandosi principalmente di Europa orientale, estremismo di destra e tematiche legate alla Germania orientale. Per la sua attività di giornalista è stato insignito di numerosi riconoscimenti, tra cui il Deutscher Reporterpreis e il Theodor-Wolff-Preis. “Eravamo come fratelli” è il suo romanzo d’esordio.
Daniel Schulz ci spiega che “Eravamo come fratelli” racconta «la storia di un gruppo di adolescenti che crescono in quel periodo particolare che segue la rivoluzione del 1989. Io stesso sono cresciuto in questo periodo e il romanzo contiene alcuni elementi biografici. Tuttavia, per me era importante raccontare una storia universale, su come il fascismo di strada funzioni nelle aree rurali, perché questa storia non è solo la mia storia. Era importante per me raccontare l’esperienza collettiva che hanno avuto molti giovani cresciuti nella Germania dell’Est negli anni Novanta. È necessario avere nuova consapevolezza di questa esperienza, perché negli anni Novanta la violenza neonazista è stata generalmente negata della élite politica, dagli studiosi, dagli adulti. Molti della mia generazione hanno interiorizzato la loro esperienza di violenza e umiliazione e l’hanno repressa nella loro memoria».
“Eravamo come fratelli” nasce da un reportage pluripremiato sulla gioventù neonazista nella provincia berlinese (pubblicato all’interno del magazine The Passanger curato da Iperborea dedicato a Berlino). Daniel Schulz ci racconta che per scrivere il reportage e il romanzo ha svolto «delle ricerche come giornalista, per quanto mi è stato possibile. Questo si spiega in sostanza con il fatto che la generazione degli anni Novanta spesso non si fida dei propri ricordi, e io non faccio eccezione. Sono tornato nei luoghi in cui sono cresciuto e ho parlato con persone che hanno vissuto quel periodo. Ho rivisto le strade di allora, i posti. Ho riletto vecchie lettere, le poesie e qualsiasi altra cosa avessi scritto. Avevo bruciato molte cose, ma non tutto. Per scrivere il romanzo ho continuato a spostarmi tra Berlino e il Brandeburgo, non nella zona in cui sono cresciuto, ma in un’area in cui molte persone ora votano per il partito estremista di destra AfD. In questo modo mi sono avvicinato al linguaggio della gente del Paese e alla mentalità di chi vota per gli estremisti di destra».
Daniel Schulz nello scrivere “Eravamo come fratelli” sceglie una lingua cruda e diretta, una combinazione di ricerca, memoria e costruzione: «Come già menzionato, ho vissuto in Brandeburgo quando ho scritto il libro e ho studiato di nuovo il tono, la cadenza, la “terrosità” e l’intensità di questa lingua della provincia, e l’ho fatta fruttare per il mio libro. La lingua di questo libro ha molte funzioni: mostra che c’è una lingua che separa la campagna dalla città, mostra che parole e modi di parlare diversi si sono affermati all’Est e all’Ovest, mostra anche che c’era già uno spazio razzista ed estremista di destra quando la DDR esisteva ancora e il Muro non era ancora caduto. Nella storia di formazione che il mio romanzo racconta, c’era il rischio di creare l’impressione che ciò che viene raccontato, il razzismo, la violenza, fossero emersi solo mentre gli adolescenti crescevano, negli anni Novanta. Perché i lettori vedono il mondo di questo libro attraverso gli occhi da adolescente per i quali tutto è nuovo. Il linguaggio crudo e a volte razzista è uno spazio che è lì davanti a loro, non lo creano, ci entrano. E poi sviluppano ulteriormente questo spazio insieme agli adulti, ai media, agli altri. Nella Germania dell’Est esiste ancora la leggenda che la DDR fosse uno Stato senza razzismo, il che non è vero».
Un processo di scrittura che non sempre si è rivelato facile perché come racconta Daniel Schulz «mettere in discussione i miei ricordi, in particolare, è stato spesso un processo molto doloroso. Dopotutto, stavo appena iniziando ad accettarli come veri e, allo stesso tempo, volevo rimetterli in discussione per non rendere troppo facile la scrittura. In fondo, è un dato di fatto che i ricordi sono spesso inaffidabili; li rimodelliamo continuamente a seconda della situazione in cui ci troviamo. I ricordi non sono solidi, sono fluidi. Anche nel libro ho inserito l’inaffidabilità di ciò che viene ricordato. Nel romanzo non c’è un narratore onnisciente; molto è costituito da voci, supposizioni e verità apparenti. Questo è probabilmente il risultato del mio approccio giornalistico. Il risultato, il testo, è l’opposto del giornalismo. Il giornalismo crea delle verità temporanee, il giornalismo gerarchizza fatti e argomenti, il giornalismo organizza il mondo per il lettore. Il libro è uno spazio costante di domande: che cosa è vero e che cosa diventa verità? Come posso trovare la mia strada se le certezze esistenti crollano da un giorno all’altro? Scelgo veramente sempre il bene in circostanze avverse, come immagino? Scelgo di sopravvivere? E anche l’opportunismo ha un prezzo e, se sì, qual è?»
“Eravamo come fratelli” ha scatenato molte reazioni nella critica e nei lettori e, come ci ha raccontato l’autore Daniel Schulz, queste «sono state spesso molto emotive. Molte persone mi hanno scritto dicendo che finalmente qualcuno stava raccontando la storia degli anni Novanta, la loro storia. Altri mi hanno scritto dicendo che si vergognavano, che avevano avuto la nausea, che erano emotivamente esausti dopo averlo letto. Avevano represso i loro ricordi per molto tempo e ora tutto stava tornando a galla. Le risposte più emotive sono arrivate dalle sorelle maggiori. Una sorella mi ha scritto di come i neonazisti avevano fatto mangiare della merda di cane al suo fratellino che lei non era riuscita a difendere. Un’altra mi ha scritto di come i neonazisti avevano insultato il suo fratellino sull’autobus e lo avevano bruciato con le sigarette e lei si era girata dall’altra parte perché non sapeva cosa fare. Ma ci sono anche molte persone che mi accusano di mentire e che dicono di non aver sperimentato questa violenza estremista di destra in gioventù. Altri mi accusano di essere un traditore e di mettere in cattiva luce l’Est. È un’accusa che si sentono rivolgere tutti gli autori che scrivono che le gravi violenze e gli omicidi razzisti degli anni Novanta non sono state semplicemente una conseguenza delle circostanze difficili, della disoccupazione e del disorientamento dopo il 1989. Autori come me scrivono che anche i bianchi della Germania Est hanno una responsabilità personale. La responsabilità di scegliere la politica estremista di destra e la violenza razzista invece che, ad esempio, l’arte, le proteste per il clima o altro. È una narrazione tedesca molto comune, perché molto comoda, che la rabbia per certe condizioni porti quasi automaticamente alla politica fascista e alla violenza. Questo è anche il modo in cui molti spiegano perché Hitler sia salito al potere dopo la recessione e l’instabilità della Repubblica di Weimar. Non sto negando la rabbia e il diritto di essere arrabbiati. Bisogna essere arrabbiati per le condizioni, bisogna volerle cambiare. Ma c’è uno spazio tra la rabbia e la decisione di fare politica fascista. E in questo spazio prendiamo una decisione. E siamo responsabili di questa decisione».