Il prossimo 19 febbraio ricorrerà l’86° anniversario della strage di Addis Abeba, uno dei crimini del colonialismo italico
E’ da pochi giorni calato il sipario sul “Giorno del Ricordo” in memoria delle Vittime delle foibe, dell’Esodo Istriano, Fiumano, Giuliano e Dalmata e delle vicende del confine orientale. Bene ricordare se lo consideriamo un momento di riflessione su una delle tragedie del Novecento. Peccato però il “Giorno del Ricordo”, istituito con legge 30 marzo 2004 al fine di conservare e rinnovare la memoria di quella tragedia che, non bisogna mai dimenticarlo, fu terribile conseguenza dei lutti inflitti all’intera Europa dalle follie del nazifascismo, nella logica che violenza generò violenza, è stato utilizzato come una clava di natura politico-ideologica, compensativa del Giorno della Memoria che per verità storica bisogna dire ebbe dimensioni non paragonabili. Ma ci sono altre vicende sulle quali è calato per decenni l’orribile ed ipocrita velo del silenzio. Parliamo dei crimini del colonialismo italiano. Il prossimo 19 febbraio (Yekatit 12, nel calendario etiope) ricorrerà infatti l’86° anniversario della strage di Addis Abeba, uno dei più efferati crimini commessi dal Regno d’Italia nelle sue colonie. La brutale rappresaglia del 1937 per il fallito attentato contro il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani è riemersa dopo un lungo oblio anche grazie al lavoro dello storico inglese Ian Campbell, autore de “Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana” (Rizzoli, 2018). In tre giorni le truppe fasciste massacrarono 20 mila civili etiopi inermi: bambini, donne, giovani, uomini, vecchi, malati. Con ogni mezzo e nei modi più crudeli. Una delle più spaventose carneficine del colonialismo in Africa. Raccontò un medico straniero che in quei tre giorni d’inferno assistette feriti e compose cadaveri: “Non vi è un mezzo per distruggere la vita umana che non sia stato utilizzato”. Ma quella spaventosa strage del regime fascista, così come altre, non vogliamo ricordarla. E coltiviamo la falsa memoria di un colonialismo italiano “buono”, fatto di strade e di ponti. Ma fu feroce e si macchiò dei più orrendi crimini. Quando oggi parliamo di “invasioni” da parte degli africani, perché non ricordiamo le nostre invasioni in Africa? Non a mani nude e sui barconi. Ma coi fucili e le mitragliatrici, con le cannoniere e gli aerei da cui veniva buttato il gas sui villaggi per bruciarne gli abitanti. Con i campi di concentramento e i massacri.
Come spiegano in una nota gli organizzatori e le organizzatrici della neonata Rete Yekatit 12–19 febbraio, saranno organizzati eventi in questi giorni organizzati per «sostenere e promuovere l’applicazione della mozione 156 approvata dal Consiglio Comunale di Roma Capitale il 6 ottobre 2022 per la risignificazione dell’odonomastica coloniale presente nella città di Roma e l’istituzione del 19 febbraio come ‘Giornata di riflessione sui crimini e sulle eredità del colonialismo italiano» e che c’è da ritenere dovrebbero essere adottati da tutti i Comuni italiani. Anche per questo la Rete Yekatit12-19Febbraio organizza dal 13 al 19 febbraio a Roma una settimana di riflessioni, passeggiate, concerti, proiezioni, dibattiti e altre iniziative per contribuire ad avviare un processo di riflessione collettiva e studio sui crimini del colonialismo italiano e sulle sue conseguenze nella contemporaneità. La Rete Yekatit12-19Febbraio è una costellazione aperta, fluida e informale, che si è formata dal basso in seguito all’approvazione della mozione, grazie a soggetti e associazioni che da anni si interessano della storia coloniale italiana e delle sue difficili eredità e molteplici conseguenze nella società attuale, che hanno espresso interesse nel lavorare insieme su queste tematiche nel contesto della città di Roma, in un’ottica antirazzista e anticoloniale.
“Roma, con oltre 150 odonimi, è il luogo d’Italia maggiormente connotato dall’esperienza storica coloniale – spiegano le associazioni nell’appello per l’istituzione della giornata di riflessione sul colonialismo -. Crediamo sia urgente e necessario avviare un processo di ri-significazione, attraverso interventi di contestualizzazione e didascalie, dei tantissimi odonomi coloniali della nostra città, esplicitando gli episodi storici a cui la loro intitolazione fa riferimento. Si tratta di un processo che può aiutare da un lato le italiane e gli italiani a riconoscere un passato che spesso facciamo fatica a guardare nella sua verità, e dall’altro lato tutte quelle persone, discendenti da chi quel colonialismo lo ha subito, che sono oggi (o lo saranno) cittadine e cittadini della nostra città. Un’occasione fondamentale anche per aprire dibattiti, confronti, formazioni, eventi intorno a quella che a tutti gli effetti possiamo considerare una nostra memoria difficile, che, senza una rielaborazione collettiva, rischia (come sappiamo bene) di continuare a riprodurre un razzismo strisciante e violento nella quotidianità delle nostre vite”. Dal 13 al 19 febbraio in moltissimi luoghi della città di Roma, un intenso programma di eventi (la maggior parte dei quali gratuiti) si offre alla cittadinanza, grazie alla generosità di associazioni, enti, istituzioni, librerie, gruppi informali, artiste/i, studiose/i della Rete Yekatit12-19Febbraio, che hanno messo a disposizione i loro spazi, il loro lavoro e il loro tempo per costruire spazi di riflessione e incontro, in un’ottica di condivisione e di rete. Ma non è un problema solo capitolino.
Anche in Friuli ci sono esempi di celebrazione del regime fascista. Un esempio su tutti, l’affresco riportato in bella vista all’ex cinema Impero di Martignacco, proprio all’ingresso principale, si può osservare un’opera di Ernesto Mitri. L’artista friulano dipinge due atleti, ma uno in particolare cattura l’attenzione, perché, braccio teso e mano aperta, sembra intento nel saluto fascista. L’affresco in questione dopo anni dietro strati di calce è stato nel 2015 rimesso alla luce e restaurato per scelta dell’amministrazione comunale: una spesa per molti inopportuna approvata in giunta per oltre 5000 euro. Ovviamente non volendo sindacare sulla qualità dell’opera, sarebbe però valsa la pena inserire un cartello esplicativo di contestualizzazione che spiegasse come quell’affresco si inserisse nell’attività dell’artista friulano a sostegno del regime mussoliniano, sostegno che era la norma per gli artisti che per lavorare accettavano il pensiero unico della narrazione del fascio e che invece molti non accettarono dovendo fuggire all’estero e aderendo alla Resistenza. Se proprio dobbiamo ricordare allora è bene ricordare tutto.