Immigrazione: “Italiani brava gente”, decenni di discriminazioni normative e burocratiche
Analizzando dati e normative relativi al tema dell’immigrazione è chiara la volontà politica, più o meno espressa, ma comunque perniciosa, di discriminare con normative e burocrazia cieca e moralmente censurabile i flussi migratori, non solo quelli che per alcuni versi potrebbero risultare meno opportuni (ma comunque legittimi) ma anche quelli di persone provenienti da zone di guerra o dove le persecuzioni sono palesi. Persone che costituzionalmente dovrebbero essere accolte e tutelate. Invece non è proprio così. La recente mobilitazione per allargare i canali di accesso alla cittadinanza italiana si accoda ai molti tentativi di riforma legislativa andati a vuoto nel corso dell’ultimo quarto di secolo, mentre nello stesso periodo le politiche migratorie nazionali hanno sempre più ristretto, per gli immigrati, il diritto di accesso a beni, servizi e misure fondamentali di welfare; un’interdizione cui hanno concorso anche le gravi disfunzioni dell’apparato burocratico. Si anticipano qui alcuni temi analizzati nel Dossier Statistico Immigrazione 2024 edito da IDOS, che verrà presentato il prossimo 29 ottobre, a Roma (presso il Teatro Orione) e, in contemporanea, in tutte le regioni e province autonome italiane.
È da oltre 25 anni che in Italia, a ogni periodica riaccensione del dibattitto intorno alla revisione della legge 91/1992 sulla cittadinanza, emergono proposte le più differenti, salvo ogni volta, fino ad oggi, concludersi tutto con un nulla di fatto. E così la norma, pur largamente ritenuta inadeguata, vige intatta da 32 anni.
Ius soli (“puro” o “temperato”), ius culturae, ius scholae e ius Italiae si contendono, recentemente, il diritto di modifica, tra le resistenze governative di chi, appoggiandosi a una lettura superficiale e spesso strumentale dei dati, taglia corto e sostiene che la legge “va bene così”.
In effetti nel 2022 e nel 2023 le acquisizioni di cittadinanza in Italia hanno superato il tetto delle 200mila (213.716 e 213.567 nell’ordine), una evenienza che si è verificata ancora solo nel 2016 (201.591). Ma questi picchi (al netto dei quali, dal 2013, la media annua è di circa 128mila acquisizioni) non devono ingannare: sono frutto della maturazione dei 10 anni di residenza continuativa necessari alla naturalizzazione ordinaria, con l’aggiunta di qualche altro anno per la definizione delle pratiche (fino a 4 secondo l’estensione temporale introdotta dal “Decreto Salvini” del 2018), da parte di un alto numero di stranieri, in buona parte alimentato dai regolarizzati nelle sanatorie avvenute, appunto, tra i 10 e i 14 anni prima.
Si tratta quindi di persone divenute italiane dopo un periodo di residenza regolare anche superiore ai 10 anni. In particolare, nel caso dell’ultimo biennio il picco di acquisizioni può essere in buona parte riferito alle sanatorie del 2009 e 2012 (che hanno regolarizzato rispettivamente 238.000 e 99.000 immigrati), mentre quello del 2016 alla sanatoria del 2002 (la più ampia finora realizzata, con 650mila emersioni).
Non è un caso che nel 2022, in continuità con il decennio precedente, in oltre 3 casi su 4 si è trattato di naturalizzazioni ordinarie (45,1%) o di trasmissione a figli minorenni da parte di genitori a loro volta naturalizzati (31,4%), riguardanti soprattutto collettività non Ue a più lunga permanenza in Italia (albanesi e marocchini). Invece le acquisizioni per matrimonio (8,8%), per elezione al compimento dei 18 anni e per discendenza iure sanguinis (14,7% complessivamente) restano, significativamente, molto più esigue. Dati, questi, che confermano la necessità di una riforma che estenda i canali di accesso alla cittadinanza almeno per i minori che in Italia sono nati o vi sono giunti in tenera età.
Colpisce, infatti, che negli ultimi cinque anni i minorenni divenuti italiani siano stati circa 215mila, in media appena 43mila l’anno, a fronte di 1,3 milioni di coetanei con background migratorio stimati dall’Istat, per la maggior parte ancora stranieri; o che, su 914.860 alunni di cittadinanza straniera iscritti nelle scuole italiane, quelli nati in Italia siano ben 598.754, ovvero 2 su 3; o che nel 2023, dopo mezzo secolo da quando l’Italia è diventata un Paese di immigrazione, gli italiani per acquisizione (1,9 milioni, per l’85% di origine non Ue) siano solo il 3,2% di tutti i residenti in Italia, a fronte di una popolazione straniera (5,3 milioni di residenti) che incide quasi 3 volte di più.
Tuttavia la sistematica pervicacia con cui si escludono larghe fasce di popolazione straniera dalla piena titolarità dei diritti non investe solo la cittadinanza (la cui mancanza impedisce, tra l’altro, di concorrere per posti del pubblico impiego), ma si estende anche a fondamentali misure di welfare.
Amministrazioni nazionali e locali continuano a sbarrare la strada ai soli stranieri, introducendo, nelle leggi e nei regolamenti per la fruizione di importanti beni, servizi o sussidi, una serie di requisiti ad hoc che rendono proibitivo loro fruirne, nonostante le ripetute sentenze contrarie di tribunali, Corte costituzionale e organismi di giustizia europei.
Ne sono esempio il requisito della pluriennale residenza ininterrotta (solitamente 5 anni) introdotto da molte Regioni per concorrere all’assegnazione di case popolari (puntualmente bocciato dalla Corte costituzionale e puntualmente reintrodotto da altre Regioni – recentemente in Piemonte e Veneto – anche subdolamente, assegnando alti punteggi alle lunghe residenze); o alla residenza continuativa di 10 anni adottata come criterio ostativo per il vecchio Reddito di cittadinanza (che, oltre a inibire la presentazione di molte domande, ha largamente contribuito alle circa 120mila revoche complessive della misura, della quale ha fruito meno del 29% delle famiglie povere straniere contro il 67% di quelle italiane).
Più recentemente, sulla stessa linea, si segnalano la limitazione dell’esonero totale dei contributi previdenziali (invalidità, vecchiaia e superstiti) alle sole lavoratrici con 3 o più figli (2 per il 2024) impiegate a tempo indeterminato e ad esclusione di quelle occupate nel comparto domestico (L. 213/2023), il che mette in atto una discriminazione indiretta verso le straniere (notoriamente la maggioranza delle lavoratrici domestiche e aventi, in media, più contratti a termine delle italiane: 36,0% contro 26,8%); o l’esclusione dei cittadini non comunitari sia dalla possibilità di iscriversi ai neo-istituiti Albi professionali dei pedagogisti e degli educatori (L. 55/2024), se non a condizioni di reciprocità con il Paese di cittadinanza (cioè solo se in esso i cittadini italiani possono svolgere le stesse professioni), sia dal “bonus patenti” di 2.500 euro, previsto fino al 2026 per incentivare l’acquisizione della patente di autotrasportatore di merci e persone e far fronte, così, alla carenza di manodopera nel settore (sebbene il Tribunale di Torino abbia ordinato di riammettere alla misura i non comunitari, i primi due anni di applicazione sono trascorsi senza includerli).
A ciò si aggiungono i cronici ritardi delle pubbliche amministrazioni nelle pratiche di rilascio di nulla osta, visti, autorizzazioni, titoli di soggiorno, risposte alle domande di asilo (anche fino a due anni), oltre che nelle convocazioni in Prefettura per la firma dei “contratti di soggiorno” (8 mesi o più, contro gli 8 giorni prescritti dalla legge) o negli Uffici comunali per il perfezionamento delle iscrizioni anagrafiche: tutte disfunzioni che, congelando per un lunghissimo periodo l’esercizio dei relativi diritti, compromettono spesso, e a volte definitivamente, l’ingresso in Italia, l’assunzione lavorativa, la regolarità del soggiorno, l’assistenza di un medico di base, l’utilizzo di servizi comunali, il riconoscimento di bonus e indennità per famiglie indigenti ecc.
“Si tratta di un sistema vessatorio – afferma Luca Di Sciullo, presidente di IDOS – che rende i cittadini stranieri strutturalmente subordinati a quelli italiani, sul piano sia dei diritti fondamentali sia, di conseguenza, della partecipazione effettiva alla vita del Paese. E questa sudditanza viene attuata tanto in linea di principio, normando a tutti i livelli amministrativi meccanismi gravemente discriminatori, quanto in concreto, imponendo – anche contro le previsioni di legge – tempi di disbrigo delle pratiche talmente lunghi da pregiudicare, spesso irrimediabilmente, il loro status giuridico e le loro già precarie condizioni di vita”.