Ira-che?
Tra i vari malanni che affliggono il pianeta ed in particolare il Medio Oriente, spesso ci si dimentica di quelli che pesano sull’Iraq. Ormai da parecchio, anche perché nel frattempo le crisi in quell’area si sono succedute in una serie impressionante, nelle pagine di cronaca estera dei media italiani l’Iraq non trova praticamente spazio. Ad onor del vero, non solo per la mancanza di attenzione verso quel Paese ma anche per la pochezza generale che la nostra stampa dedica agli esteri; a meno che non si tocchino gli interessi nazionali o dei nostri padroni alleati, allora si prova addirittura a fare la voce grossa.
Detto questo, sarebbe bene dedicare una maggiore attenzione a quello che fino ad una trentina di anni fa, prima di essere distrutto prima da “Desert Storm” nel 1991 e poi dalla famosa “coalizione dei volonterosi” nel 2003, era uno degli Stati arabi più stabili e importanti. Se poi si volesse approfondire un momento, non sarebbe male dare uno sguardo agli effetti e ai danni che una guerra produce su popolazioni e infrastrutture di chi la subisce. Saddam Hussein di certo non era un democratico, ma di gaglioffi come lui il mondo e non solo il Medio Oriente è pieno. Come per esempio una certa Madeline Albright ex segretario di stato USA, una vera democratica si sappia, che in una intervista (se non ricordo male) del 1996 affermò che la morte di centinaia di migliaia di bambini iraqeni conseguente all’indecente embargo dell’occidente era un prezzo congruo da pagare per ottenere i propri risultati. Per chi si volesse rinfrescare la memoria: https://youtu.be/RM0uvgHKZe8
Anche se rispetto all’epoca il controllo del Golfo fa meno gola all’occidente (in realtà da un annetto e mezzo schifo non fa), per gli USA quell’area era strategica tanto che l’unico ministero di Baghdad che nel 2003 non fu toccato dai bombardamenti, guarda caso, era quello del petrolio; casi della vita evidentemente. In seguito alla devastazione provocata da quella guerra voluta da chi oggi dovrebbe sedere nel banco degli imputati della CPI (Corte Penale Internazionale, tribunale che però da quei soggetti non è riconosciuto e le sue regole vanno dunque applicate solo agli altri) l’Iraq nonostante la ripresa della produzione in grande stile e i grossi introiti derivanti dalla vendita del suo oro nero, vive nel caos profondo.
Immaginare di tracciare tutti i guai che questo Paese sta vivendo sarebbe estremamente oneroso ed impegnativo, ma proverò a cimentarmi in una sintesi.
Partiamo dalla forma dello Stato che l’Iraq si è dato (in reatà gli è stata imposta); il Paese è in pratica una federazione divisa almeno in due fondamentali parti: il centro sud governato da Baghdad ed il nord che gode di un’ampia autonomia, il Kurdistan, la cui capitale è Erbil. Si sa che i rapporti tra kurdi e arabi non sono mai stati granché buoni; ai suoi tempi, il 1991, e immediatamente dopo il frettoloso ritiro della coalizione (che mai ha voluto arrivare a Baghdad) dall’Iraq, Saddam Hussein aveva pensato bene di scatenare una bella guerra civile attaccando e gasando il Kurdistan. Agli sciiti del sud, che si erano nel frattempo ribellati al governo minoritario e sunnita di Saddam, non venne concessa una sorte molto migliore; fu loro risparmiato il gas. Si potrebbe quasi dire che l’Iraq ora sia diviso in tre parti, ma nel frattempo gli equilibri sono cambiati e al governo ora e da un ventennio a questa parte, ci sono gli sciiti.
Parrebbe più o meno chiaro, solo che sia tra i kurdi a nord che tra gli sciiti al sud, le cose non vanno troppo bene. Il Kurdistan è diviso in due gruppi principali, in pratica tra due famiglie o clan, i Barzani ad Erbil e Dohuk e i Talabani a Sulaymainiyah, mentre a centro – sud anche i rapporti tra Muqtada al Sadr e Al Sistani, i principali referenti dello sciismo iraqeno ma non solo, sono piuttosto tesi. Potremmo sintetizzare dicendo che i Barzani sono molto vicini alla Turchia con cui hanno enormi scambi economici, mentre i Talabani, ma più che altro per contrapposizione ad Erbil, dimostrano una maggiore affinità rispetto ai loro “fratelli” siriani che a loro volta si ispirano alle idee di Apo Ochalan, capo carismatico del PKK (partito dei lavoratori kurdi turco). Al sud invece gli equilibri sono più che altro retti dalla maggiore o minore vicinanza dei leader sciiti con Teheran e la sua influenza. Che l’Iran determini le scelte dei vari governi in Iraq è fuori da qualsiasi dubbio e che questo incida sulle sorti di tutti gli iraqeni è altrettanto ovvio. Il fatto che poi le milizie sciite (non solo locali) abbiano un ruolo determinante negli equilibri dell’Iraq, occupando militarmente principalmente le zone sunnite, la dice lunga sul livello di interferenza che Teheran esercita su Baghdad.
Fino ad ora ci siamo premurati di dare uno sguardo generale e nonostante ciò, mi accorgo che sto per infilarmi in un groviglio che non sono sicuro di riuscire a dipanare. Vediamo dunque di partire a valutare le varie situazioni partendo dal nord, dal Kurdistan appunto. Solo per dare un piccolo esempio di quali siano i rapporti tra le due famiglie, basti pensare che qualche tempo fa un elicottero la cui appartenenza non è tutt’ora chiara è precipitato nelle montagne del nord kurdo vicino a Dohuk e per cause ancora da decifrare. L’elicottero stava trasportando a Sulaymainiyah alcuni alti gradi (non è neppure chiaro quanti fossero) del YPG, le milizie kurdo-siriane i cui rapporti con Erbil sono parecchio deteriorati. Tra i morti, il fratello di Mazlum Abdi Kobani, il comandante del YPG e del SDF le forze armate kurde-siriane. Lo stesso Mazlum Abdi Kobani, è stato vittima di uno strano attentato mentre a sua volta e scortato da soldati USA, viaggiava in convoglio nei pressi di Sulaymainiyah riuscendo a salvarsi solo probabilmente grazie alla presenza dei militari USA. Le autorità di Erbil inoltre non hanno grossi problemi a chiudere uno o anche due di fronte ai bombardamenti che i turchi non fanno mancare su ciò che rimane delle milizie del PKK che trovano rifugio principalmente nelle montagne del Nord kurdo controllato da Erbil. Nel recente periodo, tra le altre cose, sono aumentati gli attacchi dei droni turchi (anche se Ankara spesso non rivendica questi atti) contro presunti appartenenti o simpatizzanti del PKK nella regione di Sulaymaniyah.
Il PKK non è presente solo nelle montagne del Qandil, nel nord kurdo, ma anche (sebbene in merito gli stessi guerriglieri blandamente smentiscano) nel Singjar, la regione in cui vivono gli yazidi (ma anche kurdi, arabi, siryaki, turkmeni), una minoranza etnica e religiosa che viene considerata “eretica” da parte di molti musulmani integralisti. Nei confronti di questa popolazione, l’Isis ha perpetrato una strage che viene considerata genocidio quando i peshmerga (esercito kurdo irakeno) si ritirarono di fronte all’avanzata dei soldati del califfo lasciando campo libero alla mattanza. Fatto sta che sia nelle montagne del nord che nello Sinjar, l’esercito e l’aviazione turca bombardano metodicamente provocando al massimo qualche blanda protesta da parte di Baghdad. Erbil rimane più prudente; gli affari con a Turchia sono più importanti, tanto da permettere la presenza di una base militare turca sul suo territorio.
Ma sempre a proposito di yazidi, i problemi non finiscono certo qui; i seguaci del califfo avevano usato la mano pesante ne loro confronti ammazzando buona parte dei maschi e riducendo a schiave del sesso le loro donne. Ora, la maggioranza di quelle donne vive ancora nei vari campi profughi, sia in Iraq che nel NES in quanto l’essere state schiave di qui criminali le hanno rese “indegne” di venire reintegrate nella comunità dai loro mariti. I figli frutto della sventura di essere stati partoriti durante la loro prigionia ed essendo ovviamene figli dei fanatici dell’Isis, mai potrebbero essere accettati dalla comunità yazida. Come ulteriore condanna per quella disgraziata regione, ora il territorio è prevalentemente controllato, come del resto la zona sunnita iraqena dell’Anbar più a sud e che trova la sua contiguità con l’est siriano di Deir ez Zor anch’essa a forte presenza delle stesse truppe, dalle milizie sciite di cui sopra che esercitano il loro controllo con metodi piuttosto spicci. Basta farsi un giretto da quelle parti per togliersi l’eventuale dubbio.
Si diceva della larga autonomia del Kurdistan rispetto al governo centrale di Baghdad; naturalmente questa condizione si regge su precisi accordi che non sempre vengono correttamente interpretati. Uno di questi, forse dal punto di vista economico il più importante, è quello che regola la produzione, la vendita e l’esportazione del petrolio largamente abbondante nella regione. Il Kurdistan è libero di vendere il suo prodotto alla vicina Turchia, ma naturalmente Baghdad, sulla base di un trattato del 1973 chiede una percentuale di quella rendita, semplificando molto una specie di roialty di cui parte viene erogata da Erbil e parte dalla Turchia. Il petrolio viene infatti pompato nell’oleodotto principale che da Kirkuk arriva a Ceyhan, sul Mediterraneo turco. Non si capisce bene se quanto spetterebbe a Baghdad sia stato pagato dalla Turchia ad Erbil, o se quel debito non sia proprio stato onorato da Ankara. Sta di fatto che l’organismo internazionale giudicante ha stabilito che la Turchia deve pagare un miliardo e mezzo di dollari all’Iraq, ma i turchi si rifiutano di farlo. Ciò comporta che il flusso è interrotto da mesi in attesa che i turchi saldino quanto dovuto. Ora pare che un accordo tra Baghdad ed Erbil sia stato trovato, ma non si sa in che termini, e che il flusso dell’oro nero, così indispensabile per il Kurdistan possa riprendere. Anche perché nel frattempo le varie multinazionali che estraggono il petrolio in quell’area rivendicano il pagamento da parte del KRG (Kurdistan Regional Government) dei costi di produzione.
Spostandoci poi più a sud, non è che le cose vadano troppo bene nella parte meridionale controllata da Baghdad; l’Iraq è tra i dieci Paesi più corrotti del pianeta, un record davvero non invidiabile. Giusto nei giorni scorsi, all’ex ministro del petrolio sono stati bloccati i beni e gli è stato impedito di uscire dal Paese a causa di pesanti accuse di, appunto, corruzione. Sia la sua casa di Bashra che altri numerosi appartamenti intestati a propri famigliari sono sotto sequestro. L’Iraq è il secondo esportatore di petrolio mondiale (quasi 5 milioni di barili al giorno) e le sue finanze se ben gestite potrebbero essere sufficienti per far vivere bene la sua intera popolazione che invece, specie nelle aree del sud e nelle periferie è quasi alla fame. Il nuovo budget di spesa recentemente approvato dal governo è enorme (159 miliardi di USD), i soldi ci sarebbero ma se non verranno utilizzati con un minimo di coerenza, non faranno altro che gonfiare ulteriormente le solite tasche.
Certo, nulla è scontato; gli equilibri su cui il governo deve reggersi sono estremamente precari e troppi sono i diversi interessi su cui l’Iraq deve reggersi. Ma almeno rispetto agli anni più recenti, la situazione si è un minimo assestata. Anche le grandi manifestazioni antigovernative che hanno caratterizzato gli ultimi anni e violentemente represse provocando centinaia di vittime ignorate dai media occidentali, si sono molto ridotte. Vedremo se gli effetti delle spese che il governo si è impegnato a sostenere riusciranno a risolvere almeno alcuni degli enormi problemi che tutt’ora impediscono al Paese di emergere dal pantano in cui si trova. Nel frattempo, il costo della vita aumenta, la sicurezza rimane precaria, i numerosi campi profughi rimangono presenti con tutti i loro problemi, le case rimangono spesso senza corrente (in un Paese che se non problema dovrebbe non averlo, dovrebbe essere quello energetico.) e le potenze straniere hanno ancora un peso eccessivo limitando la reale indipendenza di quello Stato.
Ahh, quasi dimenticavo che l’Isis è ancora parecchio attivo soprattutto nella zona di Salahaddin dove riesce spesso a portare a termine attacchi alle truppe di Baghdad e nonostante gli sforzi anche delle forze occidentali che rimangono nel Paese con il pretesto di sconfiggere definitivamente il califfato. E anche questo mi pare un problema non da poco.
Bene, quanto sopra non ha la pretesa di aver elencato tutti i problemi dell’Iraq, né tantomeno di averne fatta un’analisi esaustiva, ma solo di aver elencato alcuni degli aspetti che a mio modestissimo avviso impediscono un normale sviluppo di quel martoriato Paese. Sicuramente questa rapida ed incompleta descrizione di quel contesto, pare dimostrare che l’esportazione forzata della propria idea di democrazia, non risulta alla fine granché efficace. Naturalmente dando per scontato che questa sia la vera intenzione; il dubbio naturalmente rimane se si dà un’occhiata ai regimi che governano tutta la regione che però hanno il “pregio” di essere amici dell’occidente… Ma forse sono io che capisco male.
Docbrino