Iraq e Siria, post bellica, effetti collaterali: non solo conseguenze fisiche o infrastrutturali ma anche sulla vita sociale delle persone
Effetti collaterali. Non si capisce come altrimenti si potrebbero definire gli strascichi lasciati dalla guerra combattuta sulla pelle della popolazione che, prevalentemente, l’ha subita. Stavolta non ci riferiamo alle conseguenze fisiche o infrastrutturali, peraltro di enorme dimensione, che i bombardamenti e le distruzioni hanno lasciato dietro a se’, ma di quanto tutt’ora si sta ripercuotendo sulla vita sociale e personale della popolazione in Iraq e Siria.
Parliamo della situazione che centinaia di migliaia di persone, escludendo i milioni di profughi che sono fuggiti all’estero, che fino ad oggi e chissà fino a quando, non sono stati in grado di trovare una collocazione adeguata o di tornare a casa loro. Mi viene in mente una riuscitissima, almeno dal punto di vista dell’idea, campagna che circa venticinque anni fa l’UNHCR (Alto Commissariato per i Rifugiati dell’ONU) aveva lanciato; un manifesto con una scritta su un muro che diceva: “Refugees go home”. Accanto a quella scritta se ne leggeva un’altra che diceva: “they would, if they could”.
Ecco, queste due frasi rappresentavano con immediatezza e precisione due punti di vista opposti, uno che da una parte esorta a cacciare i rifugiati (ma si potrebbe dire gli stranieri in genere) a casa loro, mentre l’altro chiarisce che lo farebbero pure volentieri, se solo ne avessero la possibilità.
Questo succede, non solo ma in particolare, quando una guerra ti porta via tutto e ti lascia in balia della sorte, che quasi dappertutto non concede alcuna soluzione se non, se sei fortunato, trovare rifugio all’interno dei famosi campi profughi. Che poi i motivi per cui a casa tua non ci puoi tornare siano molti e diversi, lo vedremo tra poco. C’è chi non può farlo semplicemente perché’ la sua casa e’ stata ridotta ad un cumulo di macerie, chi perché è troppo anziano per farlo, chi perché’ se anche avesse un tetto sotto cui alloggiare, non saprebbe come sbarcare il lunario.
Ci sono poi coloro che non possono tornare a casa loro per altri motivi; prendiamo ad esempio un campo in Siria, non l’unico in cui si presenti questa realtà, ma il più popoloso ed emblematico; Al Hol, a sud est di Hasake sulla strada che porta verso il confine con l’Iraq ed il deserto, all’inizio della zona petrolifera. Fino a un paio di anni fa o poco più, comunque prima delle battaglie finali in cui l’ISIS è stato definitivamente (almeno dal punto di vista militare) sconfitto, questo campo ospitava poche centinaia di persone; da un paio di anni invece è cresciuto a dismisura e, dopo aver superato gli ottantamila ospiti, attualmente ne contiene 63.000.
Ora, gestire una quantità del genere di persone in un campo è davvero impresa importante; se poi si tiene conto che questi esseri umani arrivano per buona parte dalle zone più a sud della regione del NES (North East Syria), quella che confina con l’Anbar Iraqeno, la regione dove l’islam sunnita trova la sua espressione più integrale in cui l’Isis ha trovato terreno fertile per la sua espansione, si può facilmente immaginare che controllare una struttura del genere è pia illusione.
Il campo è suddiviso in varie “fasi”, come vengono definite le diverse sezioni in cui si trovano gli ospiti, ognuna con un suo sistema di gestione che varia a seconda della realtà della “fase”. Se quella più vicine all’entrata principale del campo è tutto sommato relativamente gestibile come ogni altro campo profughi, mano a mano che ci si inoltra nelle altre zone la faccenda diventa più complicata. La presenza di molti soggetti che nel recente passato se non sono direttamente stati combattenti di DAESH (ISIS per gli arabi), sono stati certamente molto vicini ai seguaci del califfato, complica e di parecchio la gestione del campo.
Nelle “fasi” più all’interno del campo, sono migliaia le vedove di coloro che avevano combattuto con l’esercito di Abu Baker al Baghdadi, il califfo nero, e che una volta disperso l’ISIS hanno dovuto trasferirsi ad Al Hol quasi sempre con i figli che dalle relazioni con quei fanatici sono nati. Ed ovviamente anche i figli sono a migliaia. Inoltre, non solo ad Al Hol, sono molte le donne Yazide che erano state rapite e costrette a rendersi schiave dei desideri sessuali dei pazzi fanatici neri. Da cui ovviamente hanno avuto parecchi figli. Di loro parleremo qui più avanti.
Se un pensa che l’Isis sia finito e che di quella brutta gente non ce ne sia più in giro, beh si sbaglia; la presenza all’interno del campo non solo è visibile, ma la stessa ideologia è ancora ben viva e manifesta soprattutto tra le donne ex mogli dei combattenti. Il problema si complica ulteriormente quando si vedono i loro figli, i ragazzini, che inneggiano all’Isis e tirano sassi addosso a chi si inoltri all’interno delle zone dove vivono. I tentativi di organizzare la vita all’interno del campo con le strutture necessarie a fornire quel minimo di parvenza di normalità, cozzano con la mentalità e il fanatismo di quella gente. I bambini non frequentano, se non raramente, le scuole che si organizzano all’interno della struttura.
Capita spesso che se uno viene sospettato di collaborare non solo con poliziotti o militari della “coalizione” che governa la regione e sono responsabili della sicurezza all’interno del campo, ma anche con le ONG che lavorano all’interno del centro, viene eliminato da sicari che nonostante le armi non ci dovrebbero proprio essere, abbondano all’interno delle tende in cui vive la gente. Il campo è una struttura chiusa e nessuno, a parte ovviamente degli operatori che si occupano delle attività e della sua gestione, può uscire. Nonostante ciò i traffici con l’esterno rimangono fuori dal controllo delle autorità e dei militari che vigliano sulla sicurezza della tendopoli.
Tra le persone che lavorano e contribuiscono alla realizzazione delle attività, scuole, cliniche, distribuzioni di cibo e materiali vari, protezione nei confronti delle minoranze e della fasce deboli, ci sono ovviamente anche ospiti del campo. È ormai palese che queste persone vengono taglieggiate dai membri dell’ISIS, ma anche da altra gentaglia, spesso criminali comuni, che sono in grado di esercitare pressioni e gestiscono il vero potere nella “comunità”. Gli stipendi dei lavoratori sono generalmente decurtati di una percentuale che va a finire nelle mani di ISIS e criminali vari, spesso in combutta tra di loro. Naturalmente se non si vogliono passare guai seri.
Tra le vedove, ci sono anche donne di nazionalità diversa da quella siriana o irachena; le internazionali arrivate un po’ da tutto il pianeta.. Gente sfasata che ad un certo punto ha deciso di lasciare i Paesi in cui viveva e di trasferirsi all’interno di quello che ad un certo punto era diventato il “califfato”. Non è mia intenzione capire quali siano stati i motivi di tali decisioni, certo è che non sarebbe male cercare di studiare questo aspetto; fatto sta che a questo punto nessuno vuole prendersi carico di queste personae di riprendersele indietro. E questo certo è un problema che ne’ Siria ne’ Iraq possono risolvere o di cui possano farsi carico. Cosa succederà a loro e alle migliaia di ex combattenti che sono attualmente ospiti delle galere nel NES, al momento rimane un mistero e nessuno vuole pensarci.
Al di là di questo, come accennato, in mezzo a questo vespaio, vale la pena menzionare la situazione delle donne Yazide che tutt’ora vivono in questo e in altri campi. Anche per loro una soluzione è lungi dall’essere trovata. Molte sono addirittura terrorizzate dal dichiararsi Yazide; tornare presso la loro comunità significa spesso dover fare i conti con chi le considera colpevoli di essere vive e di aver dovuto piegarsi alla schiavitù di cui sono state vittime.
I soprusi che hanno subito non possono certo non aver lasciato segni indelebili e spesso irreversibili. Non solo, ma se alcune di loro volessero e potessero tornare nella zona montagnosa di Sinjar da dove sono state rapite, non potrebbero portarsi dietro i figli. Insomma, oltre ad aver subito ogni tipo di abuso da parte dei loro aguzzini, la loro comunità, nella migliore delle ipotesi, non è disponibile ad accettare i loro figli avuti, ovviamente, da chi ha usato il loro corpo a proprio piacimento in quanto figli dell’ISIS e non della comunità stessa.
Alcune sono tornate, ma hanno dovuto abbandonare i loro figli che sono dovuti essere accolti dai locali orfanotrofi. Credo che per una madre costretta a separarsi dai propri figli, non ci sia dolore paragonabile. Senza nemmeno parlare del futuro che attende i figli separate dalle loro madri. C’è un ottimo documentario su Al Jazeera International che ha cercato di indagare e far luce su questo tragico fenomeno e che riesce a dare l’immagine di cosa significhi vivere una realtà del genere.
Dunque, anche se la guerra, quella che uno si immagina perlomeno, pare avere una tregua e l’Isis che pure resiste in forme meno organizzate è stato sconfitto, i problemi causati dal conflitto sono ancora enormi e le ferite causate da quegli eventi ancora be aperte. Il lavoro da fare è fuori dalla portata di chi in qualche modo sta cercando di mettere una pezza alle conseguenze di questa tragedia. E trovare un tetto a chi lo ha perso, seppure sia una delle necessità più impellenti, non rappresenta neppure la difficoltà maggiore nel poter ridare un minimo di normalità a chi di normale ormai non ha più niente. Le ferrite sopportate dalla mente, sono le più difficili da suturare.
Non sarebbe male riflettere sul trattamento che riserviamo a coloro che queste esperienze hanno subito e continuano a subire, e che chiedono almeno un po’ di umanità. Quella stessa umanità che abbiamo perso e che pare si a definitivamente scomparsa ai confini della nostra democratica Europa. Le immagini dei disperati che fuggono dalle esperienze disumane ci scandalizzano fintanto che rimangono relegate alla tv, ma ciò non ci permette di indignarci veramente. Non sarebbe male ricordarci che questi macelli li abbiamo provocati anche noi, che siamo se non direttamente, sicuramente indirettamente responsabili per non esserci opposti a scelte scellerate. Un piccolo esame di coscienza non farebbe male e forse ci permetterebbe di ritrovare un po’ di quella umanità, mentre invece preferiamo chiudere gli occhi; una cecità che non ci permette di capire che le facce che vediamo al confine tra Bielorussia e Polonia, sono le stesse che scappano dagli orrori di cui sopra (i voli verso la Bielorussia, partono dagli aeroporti di Erbil, Sulemaynia e Baghdad, in Iraq, o da quelli turchi) e che ci indignano solo finche’ rimangono lontani dai nostri confini. E ci dimentichiamo facilmente che se quella gente arriva ai limiti della pseudodemocratica Europa, è perché’ quelle guerre e i conseguenti disastri, qualcuno le ha scatenati.
Tra un mesetto saremo a Natale, la tradizione vuole che dovremmo essere tutti un po’ più buoni. Ci vorrebbe veramente poco, ma non c’è da essere troppo ottimisti. Anche se non occorrerebbe essere più buoni, solo un po’ più giusti.
Docbrino