La colpa degli altri. Il ladro e il palo
Si sperava che sarebbe diventato superfluo continuare a parlare del dramma in cui vivono, si fa per dire, i palestinesi e che quella carneficina trovasse una soluzione, una fine. Invece, al contrario, Israele pare di opinione opposta e negli ultimi giorni ha aumentato i bombardamenti sia a Gaza che al nuovo fronte settentrionale, quello del Libano. C’è, ci sarebbe in realtà, da chiedersi a cosa servano le pantomime di Blinken e le altre marionette che continuano a fare la spola tra USA e Medioriente, in particolare a Doha dove ci raccontano di fantomatici incontri tra “le parti” per cercare una soluzione al conflitto o perlomeno un cessate il fuoco più o meno temporaneo. Che per mettersi d’accordo sia indispensabile che tutti i potenziali attori siano presenti, pare un dettaglio da poco; almeno a quanto sembrano pensare gli ologrammi dei partecipanti a questi incontri. Dico ologrammi come consistenza, visto che le discussioni e l’ennesimo viaggio del segretario di stato Usa (dovremmo essere arrivati ad 11) fino ad oggi non hanno portato ovviamente a nulla. Dunque chi è che discute con chi, ma soprattutto su cosa? Probabilmente su ipotesi che sono chiaramente irricevibili da parte di chi subisce il quotidiano macello e a cui in pratica si chiede di consegnare gli ostaggi israeliani offrendo una tregua temporanea e finalizzata essenzialmente a quel risultato. Poi, nemici come prima e avanti col massacro. Come proposta, francamente, non mi sembra granché.
Di usare altri argomenti molto più convincenti, tipo un embargo almeno della vendita di armi all’esercito di Tel Aviv e di sanzioni internazionali non se ne parla; anzi, in alcuni casi si arriva persino a criminalizzare il boicottaggio nei confronti del Paese che commette gli evidenti crimini. Oppure si proibisce addirittura la protesta e il dissenso contro il macello perpetrato nei confronti dei palestinesi. Come esempio di democrazia, niente male specie se si considera che tali limiti sono imposti da chi, si professa il più accreditato difensore dei diritti umani.
Ma c’è di più, come svelato dalle inchieste di Al Jazeera e riportato come sempre con tempestività da Alberto Negri; la stragrande maggioranza dei voli (migliaia) di ricognizione (chissà se solo quelli) utili ad identificare i bersagli dell’aviazione israeliana sono stai compiuti dagli aerei USA (circa il 25%) e, molto più corposamente, quasi il 50% da quelli britannici. Naturalmente per portare a termine quelle missioni, sono serviti gli appoggi e supporto di molti altri attori, Germania, Grecia, Cipro e, guarda caso, Italia. Dunque non è affatto vero che quella in corso sia una guerra tra Israele e (generalizzando) i palestinesi. Anche noi, come gli altri di cui sopra, siamo parte della guerra e dunque responsabili di quella carneficina.
Poi, sono l’esercito, l’aviazione, la marina israeliana che provvedono al lavoro sporco, tanto è ufficiale che nessuno interverrà, come sarebbe necessario, a fermare la carneficina, per poi raccontarci che i 50.000 ammazzati sono appartenenti oppure fiancheggiatori di Hamas. Oppure che ospedali, scuole, tendopoli, mezzi di soccorso sono covi dei “terroristi” e che i giornalisti sono i loro portavoce. Infatti sono circa 170 i lavoratori dell’informazione e almeno altrettanti operatori sanitari che ci hanno lasciato le penne, quasi sempre colpiti premeditatamente dai colpi o dalle bombe dell’IDF (Israeli Defence Forces). A quanto pare gli USA non hanno ancora rinunciato al vecchio progetto per il “new american century” che nel passato ha portato a risultati come lo sgretolamento dell’Iraq e la balcanizzazione di parte del Medio Oriente. In parole povere, l’esportazione della democrazia in versione statunitense. Stavolta si affida all’appoggio ai crimini israeliani e ai bombardamenti che ormai interessano molti degli Stati mediorientali¸ Libano, Siria, Iraq e Iran sono stati e sono regolarmente colpiti dalle forze armate israeliane che senza le armi e i servizi occidentali non potrebbero continuare. Che ci sia qualcosa che non funziona a Washington è dimostrato dall’intervista di “La Repubblica” a Robert Kagan in cui il fondatore di quel think tank si scaglia contro il Washington Post (il cui proprietario è Bezos-Amazon) per non aver preso posizione sui candidati alla Presidenza e ora fa il tifo per Kamala Harris, (quella che paragona la mattanza di bambini palestinesi all’aumento del prezzo delle verdure). È evidente che anche in caso di elezione dell’attuale vice presidente USA, le cose non cambierebbero e in ogni caso l’intervento degli Stati Uniti nei confronti di Tel Aviv non cambierebbe.
Intanto si cerca di oscurare l’informazione indipendente e ancora sul campo; l’unica testata interazionale che era rimasta a testimoniare le nefandezze di Tel Aviv, appunto Al Jazeera, è stata espulsa da Israele e i suoi uffici di Ramallah sono stati violati e chiusi dall’esercito occupante. Rimangono, sempre più a rischio della loro incolumità, i giornalisti locali della rete qatarina, che effettuano un servizio indispensabile senza il quale avremmo solo ed esclusivamente le notizie da parte di Daniel Hagari, il fantoccio ufficiale addetto stampa dell’esercito e dal governo incaricato di distribuire le veline che vorrebbero negare anche l’evidenza.
Il fine di questa orrenda ecatombe è sempre più chiaro; cacciare tutti o quasi perché la manodopera a basso costo sarà necessaria, i palestinesi dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania creando come dicono gli israeliani non i palestinesi (non sarebbe male che anche i nostri governanti sapessero che il significato di quella frase ha interpretazioni diverse), “dal fiume al mare un solo stato”, quello ebraico di Israele. Di cessate il fuoco non se ne parla, nemmeno per i due giorni utili a far entrare nel nord di Gaza quel minimo necessario per non far crepare di fame le decine di migliaia di persone che ancora si aggrappano a ciò che rimane delle loro proprietà rifiutandosi di essere espulsi nelle cosiddette zone sicure. Sicure solo di essere a loro volta metodicamente bombardate tanto quanto avviene in modo ogni giorno più violento in particolare nel nord di Gaza. È di stanotte l’ultimo massacro compiuto dall’aviazione di Tel Aviv che ha raso al suolo un palazzo di 5 piani provocando la morte di almeno 70 persone, mentre molte altre sono ancora sepolte sotto le macerie. Stessa storia nella valle del Bekaa dove un altro palazzo ha subito l’identica sorte.
Ma al di là delle macerie fisiche che ormai hanno (avrebbero) superato la più pessimistica previsione, quello che ci dovrebbe preoccupare sono le macerie in cui si è dissolta l’umanità, l’idea che esista una giustizia, l’esigenza più che la voglia di dire basta, che i colpevoli di queste stragi devono essere perseguiti e giudicati. Invece, anche la decisione da parte del parlamento israeliano di bandire UNRWA (agenzia della Nazioni Unite in supporto dei rifugiati palestinesi) da Israele e di impedirne le attività di soccorso ora ancora più indispensabili di ieri, ha suscitato solo qualche latrato da parte dei rappresentanti politici occidentali. Si finge di scandalizzarsi per poi chiudere gli occhi e la coscienza di fronte a ciò che per fortuna ancora qualche coraggioso giornalista riesce a mostrarci.
“Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”; così ci diceva Fabrizio De Andre. Ma, come sempre è più comodo girarsi dall’altra parte mentre si consuma questo ennesimo massacro anche con la nostra diretta complicità. Non si può chiamarlo genocidio? Chiamiamolo come vogliamo, ma c’è qualche differenza dal punto di vista pratico?
Docbrino