La macelleria cilena che piace all’Europa

E’ noto che il colpo di stato fascista di Augusto Pinochet, nel lontano 1973, fu utilizzato dagli Stati Uniti come piattaforma di lancio del così detto modello neoliberalista a livello globale. Da allora ad oggi quel modello è diventato l’intoccabile paradigma economico (privatizzazioni, compressione di salari e diritti, defiscalizzazione per i ricchi) perseguito indistintamente da un colossale blocco politico trasversale che va dall’estrema destra alla socialdemocrazia (evidentemente nemmeno più degna di attribuirsi tale appellativo). Il Cile in particolare, nel contesto latinoamericano, non è mai uscito da quella gabbia nemmeno dopo la fine della dittatura. E per questa ragione è sempre stato definito come un “miracolo” di sviluppo. Grazie alla Costituzione reazionaria lasciata in eredità da Pinochet e ancora in vigore tale e quale, questo “miracolo” garantisce lo strapotere del capitale: salari da fame (il 20% dei lavoratori guadagna meno di 120 dollari ed il 50% meno di 550), il 70% della popolazione indebitata, pensioni drammaticamente ridicole e completamente privatizzate come privatizzate sono educazione, salute, energia ed acqua. Aggiungiamo poi un pizzico di saccheggio ambientale, la grande evasione fiscale dei ricconi, un Paese svenduto alle multinazionali (tra cui l’italiana ENEL) ed alle poche grandi imprese, una limitatissima libertà sindacale, gli scandali della corruzione delle grandi imprese e delle Forze Armate, la violazione costante dei diritti umani, in particolare del popolo Mapuche. Eccolo il “miracolo” cileno, una esecuzione a regola d’arte della ricetta neoliberalista. Ma lo storytelling blasonato degli economisti embedded non basta più e il miracolo finalmente si frantuma sotto il peso della sua infamia. Il clamoroso movimento di massa che sta riempiendo letteralmente le piazze e le strade di tutto il Paese comincia otto giorni fa con una protesta degli studenti contro l’ennesimo aumento del biglietto del metro di Santiago. Poi si aggiungono i minatori del rame, i portuali (20 porti bloccati), i lavoratori della salute, del metro, i camionisti, gli insegnanti, i settori della cultura e il ceto medio. C’è stato un primo sciopero spontaneo, poi quello dei lavoratori della sanità pubblica, un settore distrutto dalla mancanza di investimenti e tragicamente famoso per le morti (quasi 20.000 l’anno scorso) di persone in attesa di esami clinici e di cure che non hanno potuto pagare. Mercoledì scorso c’è stato uno sciopero generale mentre ieri assemblee in tutto il Paese. Il presidente-imprenditore Piñera dichiara guerra al suo stesso Paese e la affida al suo ministro dell’interno, Andrés Chadwick, fervente sostenitore della passata dittatura nelle cui file prestò servizio da giovane. Carri armati per strada, coprifuoco, almeno 22 morti accertati, migliaia gli arrestati, centinaia i feriti da colpi di arma da fuoco dei carabineros e delle Forze Armate, sequestri in piena notte, diversi gli stupri di donne arrestate, decine di “desaparecidos”. Per il momento le mobilitazioni chiedono la rinuncia di Piñera, il ritorno delle Forze armate nelle caserme, la fine del coprifuoco, il ritiro dei progetti di legge antipopolari, la convocazione di una Assemblea Costituente per un nuovo “patto sociale”. Ma la macelleria cilena, che lo stesso Piñera ha recentemente definito “oasi” all’ONU, piace molto all’Europa, specialmente a quella degli investitori. Quella Europa che (dall’estrema destra alla farlocca compagine socialdemocratica) equipara nazismo e comunismo e che lo scorso mercoledì ha votato contro una richiesta presentata dal gruppo della sinistra europea (GUE/NGL ossia comunisti e verdi) di discutere della tragica situazione cilena e assumere una posizione di ferma condanna nei confronti di quel governo.

Gregorio Piccin