Opinioni: La via della “setta”

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Basterebbe prendere atto della crescita inarrestabile dell’economia cinese per capire che l’Europa non ha scampo. Per non accelerare il processo di invasione delle merci cinesi e la sconfitta della nostra economia basata sulla trasformazione servono sì gli accordi commerciali, ma il divario è tale da dubitare della loro efficacia.
Per ragioni di lavoro ho visto crescere la Cina dai minimi termini in cui era ridotta negli anni Settanta sino ad arrivare al boom degli anni Novanta. Con il varo della cosiddetta “economia di mercato socialista” del 92 l’economia cinese è partita a razzo e qualche anno dopo ne ho avuto la riprova nel momento in cui, colto da un insano masochismo, ho voluto prendere la Transiberiana da Pechino a Mosca e assistere a quella che ritengo essere stata la prima edizione della cosiddetta via della seta. Tutto era filato liscio sino al confine con l’Unione Sovietica, ma a quel punto il treno si fermò per una lunga, snervante, quanto incomprensibile attesa. Fummo obbligati ad entrare nei compartimenti e ad oscurare i finestrini: tuttavia senza impedire la mia incontenibile curiosità. Intanto il treno fu subito affiancato da una lunga serie di carrelli vuoti, quasi fossero pronti ad accollarsi una quantità di merci da quello che era pur sempre un convoglio passeggeri. Al tempo stesso un folto gruppo di ufficiali russi -all’apparenza uno per sorte, fra le varie armi- si era raccolto in un crocchio ai piedi del mio vagone e li se ne stava in attesa, in una calma solo apparente, sebbene rotta da un silenzioso e sporadico scambio di indecifrabili cenni con un tal pingue cinese affacciato dall’ultimo scompartimento del mio vagone. Ad ogni impercettibile riscontro del cinesone gli ufficiali si interrogavano con gli occhi e ci furono momenti in cui quel teatrino di mimi parve indispettirsi e rivolta
l’attenzione alla teoria dei carrelli vuoti, parve irritato a tal punto da voler abbandonare quella che a tutti gli effetti altro non era che una misteriosa trattativa. Spazientiti, più volte i russi furono sul punto di passare alle vie di fatto, ma con la stessa loro teatralità bastava un cenno del cinese ad ammansirli e quindi a riprendere la pantomima. Dopo un ora e mezza di
snervanti andirivieni e di un centinaio di mozziconi schiacciati sulla pensilina, le aspettative si quietarono finché una delegazione di ufficiali si decise a salire sul vagone e, percorso il corridoio, si piazzò nei pressi del compartimento del cinese. A quel punto, sbirciando attraverso le tendine del mio compartimento, vidi sbucare e andare incontro ai Russi una
specie di lottatore di sumo, pieno di cicatrici e largo quanto il corridoio. Egli indossava una semplice calzamaglia con una grossa protuberanza all’altezza dei reni, formata da un evidente pacco di dollari di grossa taglia; ma arrivato all’altezza dei russi, costui fece un rapido dietrofront, tanto da farsi prelevare il dovuto, promuovere l’uscita di scena degli ufficiali e, finalmente, l’altrettanto rapida e sospirata ripartenza del treno. Ero ancora lì a riflettere sul senso di quella trattativa che un gruppo di laboriose maestranze si era messo ad aprire tutte le botole del possente treno e ad estrarvi ogni ben di Dio: chi a montare lampadari, chi a riporre camice variopinte, chi pellicce, chi abiti, chi piccoli elettrodomestici…
Quando poi arrivammo in piena notte alla prima delle quattordici fermate, i fatti superarono ogni immaginazione. Una folla tumultuante era in attesa sulla pensilina a rischio di essere travolta: ma nessuno salì. In compenso ad ognuna delle porte si affacciò una sorta di vu cumprà con quanta più roba addosso, il quale, assalito da quella vociante folla che sventolava pacchi di rubli, dispensava ogni cosa gli venisse richiesto con tale rapidità da non lasciare scampo alla pur minima trattativa.
Il treno ripartì a fatica, carico di rubli e la scena si ripetè per quattro giorni e cinque notti ad ogni successiva stazione: qualunque fosse l’ora del giorno o della notte e sempre indifferente ai maldestri tentativi dei militari di impedire l’assalto a quella specie di supermercato itinerante in viaggio attraverso la Russia di Yeltsin.
Ai giorni nostri è cambiato quasi tutto, ad eccezione della convenienza economica delle merci cinesi. I container arrivano stracolmi e, come i vagoni della Transiberiana di allora, tornano in Cina semivuoti a dimostrazione che i cinesi non hanno bisogno di noi. Eppure si fa un gran parlare della via della seta come fosse l’albero della cuccagna e la soluzione di tutti i mali del nostro tempo. Ebbene a cadere nella trappola delle odierne minchiate sono soprattutto i Friulani, a cui puoi raccontare che gli asini volano e questi, per non deluderti, finiscono per crederti. Lo si è visto nel novembre scorso in occasione di un convegno organizzato dalla associazione Friuli Europa. Fra i relatori, i responsabili delle politiche economiche della nostra Regione e tutti, ad eccezione di quella volpe di Michelangelo Agrusti che rappresenta gli industriali del Pordenonese, a lanciare petali di rose sulla via della seta. Per benedire la stagione degli affari e attestare la primogenitura del Friuli avevano scomodato persino il Vicario dell’Arcidiocesi udinese e riesumato il viaggio in Cina del beato Odorico da Pordenone. Tutti a fare il tifo per la via della seta e a dirsi pronti ad attaccarsi alle zinne del piano cinese di investimenti: convinti più che mai di approfittare del momento per diventare la porta d’ingresso delle merci cinesi! Pervasi da una evidente eccitazione con le lodi del porto di Trieste e ne elencarono le qualità, i fondali, le infrastrutture e financo la Jota. E il Friuli? “Sarà il retroporto di  Trieste!”…“Saranno necessarie, allora, sia una politica industriale regionale, in modo che l’industria manifatturiera regionale tragga il massimo di beneficio dalle potenzialità di trasformazione industriale delle merci di passaggio, sia una politica territoriale e della logistica capace di distribuire largamente, sul complesso del sistema delle infrastrutture disponibili (ferroviarie, portuali ed interportuali), gli enormi carichi di merci previsti.” Come tacere davanti a tanta ingenua stupidità? Come non indignarsi di fronte alla miopia di una classe che invece di essere dirigente è eterodiretta? Non è una questione di campanilismo: è solo e semplicemente una questione di realismo. E non è nemmeno da addossare la croce allo scalo giuliano che grazie alla abilità di D’Agostino promuove se stesso a dispetto dell’immobilismo e della generale incompetenza della politica regionale.
Sotto gli occhi compiaciuti del solo Agrusti ho allora dovuto ricordare ai convenuti che la Cina non scherza e dove pianta le tende deve comandare lei, per giunta senza intermediazioni di sorta. Lo si è visto dalla determinazione e dal cinismo con i quali si è presa il porto del Pireo, quello di Colombo nello Sri Lanka o la base navale di Gibuti a presidio della via del Mar Rosso. E poi a che fine se non quello di invaderci con le sue merci che arrivano pronte per l’uso e con la stampigliatura del prezzo in euro. Non certo per portare i semi lavorati e le materie prime ai Friulani… se non in un prossimo futuro quando, diventati talmente poveri e subordinati, diventeremo le maestranze della Cina.
Il Presidente Zeno D’Agostino gode di tutta la nostra stima -se non altro per aver dimostrato che non serve la TAV a migliorare il trasporto merci- e il porto di Trieste fa bene a giocare le sue carte, ma non al punto di diventare il regista della politica industriale regionale. Non al punto di trasformare i Friulani negli sherpa dei Cinesi e il Friuli in una semplice piattaforma logistica per il transito delle merci verso l’est e il nord Europa. A prestarsi al gioco era stata in primis la Serracchiani e all’epoca nessuno dei convenuti se n’era accorto, preferendo lodarne l’intraprendenza. Cinica come pochi, da Udinese si era fatta Triestina e, al pari dell’amministratore infedele di evangelica memoria, aveva dispensato favori a Trieste, ben convinta di esserne ricambiata nel giorno delle elezioni politiche. Senza colpo ferire le aveva portato in dote l’aeroporto di Ronchi e poi l’interporto di Cervignano, fatto crescere nelle mani dei reduloni della Bassa e poi ceduto d’imperio all’interporto di Fernetti. Quante bugie! Quante fandonie per accreditare l’idea che eravamo tutti una grande famiglia pronta ad addentare il malloppo dell’ingenuo cinese, a sognare le grandi (e inutili) infrastrutture immolate sull’altare dello sviluppo e pagate dal solito Pantalone.
Quello dello scalo e poi dell’interporto di Cervignano resta pur sempre un monumento all’imbecillità, passato sulla testa di amministrazioni inette che hanno tagliato nastri di una cattedrale nel deserto. Eppure ci voleva poco a capire che l’interporto di Cervignano era una bufala per far credere che il Friuli fosse della partita; mentre era del tutto evidente che le merci non hanno bisogno di stazionare, bensì di viaggiare senza posa. Dopo un anno dalla sovrana decisione di cedere l’interporto a Trieste il 22 febbraio siamo andati ad assistere alla seduta del consiglio comunale di Cervignano e lì maggioranza ed opposizione si sono strappate le vesti a babbo morto, per mettere a verbale che non erano affatto soddisfatte di essere state espropriate. Lo hanno dichiarato a distanza di un anno con l’aria semiseria di quel tanghero che dopo essere stato riempito di botte se l’è cavata dicendo “me le ha date sì, ma gliele ho dette tante! Si sono umiliati con quel tal Borruso, che per essere stato il magnifico rettore dell’Università di Trieste, ne ha raccontate sin troppe da queste parti ed ora continua a farlo nelle vesti di presidente dell’interporto di Trieste.
E non basta, perché dopo l’inutile interporto a seguire arriva l’altrettanto inutile e costosissimo raddoppio della ferrovia Cervignano-Udine!
Tibaldi Aldevis