Mangiarotti, le arance della Sicilia e i boschi della Carnia. Lettera aperta di Massimo Moretuzzo segretario del Patto per l’Autonomia

È arrivata con l’inizio della primavera, quasi fosse nell’aria e con un senso di ineluttabilità, l’ennesima crisi industriale. Dopo i casi Burgo, DM Elektron, Sirti, questo primo trimestre del 2019 ha regalato al Friuli anche la prospettiva della chiusura dello stabilimento di Pannellia di Sedegliano di Mangiarotti S.p.a, ora di proprietà del fondo Brookfield. Pare che la proprietà sostenga che i dipendenti mantengano il posto, basta siano disponibili a trasferirsi a Monfalcone. Che sarà mai, qualche chilometro in più per mantenere un salario in grado di sostenere la propria famiglia! E poi così ci si avvicina ai mitici cantieri di Fincantieri e magari anche ai suoi modelli produttivi, caratterizzati dal ricorso spinto al subappalto per contenere i costi e massimizzare i ricavi. Poco importa se questo si traduce in una diminuzione dei diritti dei lavoratori, in gran parte stranieri, che costano meno e non si lamentano. Quisquilie che non hanno impedito al gotha della politica italiana e regionale di cimentarsi recentemente in lodi sperticate ai vertici aziendali.
Nel frattempo l’operoso Ministro del lavoro del governo italiano è impegnato a sovrintendere ai negoziati con la Cina, forieri – chi dicesì, chi dice no – di straordinarie opportunità di crescita per il nostro Paese.
Delle svariate e amene dichiarazioni da parte degli esponenti del Governo diffuse in questi giorni, quella che più mi ha colpito è quella relativa alla soddisfazione espressa dal Ministro Di Maio per il fatto che “il 2 aprile arrivano a Pechino, per la prima volta, le arance della Sicilia trasportate via aereo”. Oltre alle arance si potrà esportare anche carni suine congelate e pare ci siano negoziati avanzati anche per le carni di bovini e pollame.
Immagino che al ministero presieduto dai pentastellati, ormai esperti nelle analisi costi/benefici, si siano fatti i conti di quelle che gli economisti chiamano “esternalità ambientali”, cioè l’impatto sull’ambiente delle attività economiche e commerciali, come se questo fosse “esterno” a qualcuno, su un pianeta in cui il limite della sostenibilità è stato superato da tempo.
Chissà se il Ministro Di Maio – quello stesso Ministro che il 15 marzo scorso, rivolto ai giovani scesi in piazza per manifestare contro l’inerzia delle istituzioni di fronte ai cambiamenti climatici sosteneva risoluto che “l’ambiente è di tutti e sul clima non ci devono essere compromessi” – ha considerato quanto sia sostenibile, in termini di costi ambientali, trasportare dei polli o dei suini dall’Italia alla Cina, invece di allevarli in loco.
Appare evidente, invece, che questi ragionamenti sono assolutamente esclusi dal dibattito e, alle poche e isolate voci che timidamente pongono il tema, arriva puntuale la ridda di sentenze sulla “necessità di tornare a crescere”, sul “treno dello sviluppo da non perdere”, sulla “creazione di milioni di posti di lavoro”.
Ritengo che sia il tempo di una riflessione seria, senza slogan e retorica, su che modello di sviluppo abbiamo in mente, prima di tutto per la nostra Regione.
Se non sia, finalmente, il tempo di spingere con forza verso l’unica direzione sensata, quella della transizione verso la sostenibilità, orientando in questo senso le risorse necessarie e creando le condizioni per lo sviluppo di sistemi e filiere economiche locali che mettano, almeno in parte, al riparo i territori dalle perturbazioni di una globalizzazione evidentemente fuori controllo, che sta trascinando l’umanità verso l’autodistruzione.
Di esempi ce ne potrebbero essere molti, partendo dalle montagne della Carnia: mentre i nostri boschi spesso non vengono gestiti e invadono prati e borghi sempre più disabitati, oppure vengono comprati “in piedi” da intraprendenti imprese austriache, nelle nostre stufe bruciamo legna da ardere che arriva dalla Serbia o dalla Bosnia, percorrendo migliaia di chilometri e dopo processi produttivi che di sostenibile hanno poco o nulla, e le nostre imprese edili utilizzano legname che, ironia della sorte, comprano spesso in Austria.
Perché non investire, magari attraverso enti come Friulia, nella strutturazione vera di una filiera del legno locale e attenta dal punto di vista ambientale? I disastri dello scorso ottobre avrebbero potuto essere un’occasione per dare un segnale significativo in questa direzione, ma evidentemente così non è stato.
Forse chi governa non ritiene queste cose abbastanza importanti, meglio andare a Pechino. E magari berci una spremuta di arance siciliane. Con buona pace degli operai della Mangiarotti.

Massimo Moretuzzo
Segretario del Patto per l’Autonomia