Reddito di cittadinanza vietato agli stranieri poveri. Emendamento Lega pone ostacoli insormontabili

Da “prima agli italiani” a “solo agli italiani” il passo è breve. Così per l’ennesima volta nella probabile indifferenza grillina la Lega di Matteo Salvini, nelle sue frange più xenofobe, attua con un codicillo malevolo l’esclusione di parte dei cittadini extraeuropei residenti in Italia dai benefici del reddito di cittadinanza. Un divieto agli stranieri che viene attuato attraverso un emendamento al Senato al decreto che pretende da parte dei cittadini extra–europei la presentazione di una certificazione di reddito e del patrimonio del nucleo familiare rilasciata dal paese di provenienza esclusi i paesi dove questo è impossibile. Ma non c’è bisogno che il paese di provenienza sia dilaniato dalla guerra perché sia evidente che si tratti di una pretesa praticamente impossibile da avanzare nella migliore delle ipotesi con costi insostenibili per i richiedenti che dovrebbero provvedere anche alla traduzione giurata degli atti e alla loro vidimazione consolare. Una odissea tragica per un reddito di cittadinanza “vietato agli stranieri”. In sostanza viene previsto che le persone “straniere” come vengono etichettate dal governo Conte dovranno documentare il valore complessivo del loro patrimonio, compreso quello immobiliare all’estero se vorranno accedere al reddito di cittadinanza. E’ notorio che al di fuori dell’Unione Europea gli standard su dichiarazioni dei redditi e catasti non consentono neppure in loco certificazioni, figuriamoci per via consolare.
L’obiettivo è chiaro, non una più precisa categorizzazione del patrimonio dei cittadini extra-europei ai fini del diritto ma la creazione di un muro burocratico per limitare artificialmente l’erogazione senza avere il coraggio di metterlo nero su bianco in legge.
Questo modo di discriminare da parte della Lega non è casuale ma frutto di un consapevole progetto politico che il M%s avvalla in maniera acritica succube com’è delle decisione del proprio alleato di governo che non va disturbato. Contro gli stranieri è in atto una forma di razzismo sottile e burocratico, una pericolosa deriva subdola e drammaticamente istituzionale.

Basta unire i puntini degli ultimi nove mesi per tracciare un disegno chiaro, disseminato di quelli che sono stati veri e propri campanelli di allarme. Il caso più lampante è stato forse quello di Lodi, dove la sindaca della città aveva deciso di escludere dalla mensa i ragazzini stranieri se le loro famiglie non fossero state in grado di dimostrare l’ammontare del proprio patrimonio in patria.

In quello stesso periodo, la regione veneto aveva iniziato un progetto per una discriminazione simile, prendendo di mira le agevolazioni ai libri di testo. Potremmo poi citare Monfalcone e Trieste. Non si tratta di casi unici e neppure solo recenti, ma tecniche che fanno arte del Dna amministrativo leghista: nel 2008, il comune di Brescia decise di elargire un “bonus bebè” di 1000 euro, a patto che almeno uno dei due genitori fosse italiano. Nel 2009 per fortuna il bonus venne esteso a tutte le famiglie, in seguito a notevoli proteste.
Nel 1997, il sindaco-sceriffo Gentilini di Treviso fece togliere le panchine dalla città, perché “le usano gli immigrati” e nel dicembre scorso lo stesso fece il sindaco di Udine Fontanini ma per fare posto ad un presepio. Poi c’è anche stato il divieto di usare altre lingue che non fossero l’italiano per gli eventi pubblici nel comune di Trenzano (BS). L’elenco si allunga ed è chiaro che vi è una perniciosa sistematicità con cui la burocrazia viene armata per diventare strumento di razzismo istituzionale che ha trovato la sua apoteosi nel recente dl “sicurezza”. Insomma la fissazione del governo Salvini, (si può tranquillamente omettere la presenza di Di Maio che ormai è vice non di Conte la del leghista) di escludere gli “stranieri” dal reddito di cittadinanza è vecchia quanto il governo stesso — quando la maggioranza ha dovuto fare i conti con la dissonanza tra la propria (falsa) retorica di assistenza verso i più poveri e la propria (vera) volontà di discriminare verso gli stranieri. Quasi come se fosse una sorpresa che tanti poveri sono anche non italiani.
È così che, sotto scacco dalla Lega, il Movimento 5 Stelle si è fatto strappare la propria misura icona, quella da sbandierare in nome di un nuovo presunto egualitarismo — e si rende complice di trasformarla in un meccanismo che cementa come no, i cittadini non sono tutti uguali davanti a questo Stato. Esattamente come non tutti sono eguali davanti ala legge, perchè qualcuno, come il ministro degli interni è più uguale a dimostrazione che “uno vale uno” è una favoletta che ha turlupinando milioni di lettori in buona fede e che oggi, forse, cominciano a svegliarsi.