Ritorno a bomba
In questa triste storia che dura ormai da 11 anni, c’è una costante: il chiodo fisso della Turchia di definire una volta per tutta il suo contenzioso con i kurdi. Almeno con quelli che non si allineano alla necessità di realizzare grossi business con l’ingombrante vicino.
Capita dunque che periodicamente da Ankara giungano non solo minacce nei confronti del PKK (Partito dei Lavoratori Kurdo) ma anche dei vicini che abitano (sempre meno) la fascia a sud del confine tra Siria e Turchia e che del leader del PKK, “Apo” Ochalan, hanno fatto il loro riferimento politico.
Ormai è dal 2016 che in varie fasi, le truppe turche hanno invaso diverse fette del territorio del Rojava, l’occidente del Kurdistan, occupando buona parte delle aree a maggioranza kurda che vanno grosso modo da Afrin ad ovest, fino a Derek nell’estremo est della Siria penetrando per una media di 30 km (ad ovest dell’Eufrate anche molto di più) lasciando poi la gestione di quelle regioni nelle mani dei sedicenti ribelli che altro non sono se non dei fanatici islamici radicali perennemente in lotta tra di loro, ma che hanno provocato la fuga della maggior parte degli originari abitanti kurdi.
Ora, ed in seguito all’attentato di una decina di giorni fa ad Istanbul che le autorità turche hanno senza ombra di dubbio addossato nemmeno al PKK ma direttamente al PYD (partito di governo della Self Administration del Rojava) e considerato dai turchi l’emanazione siriana del PKK stesso, Erdogan & C. hanno cominciato a tuonare contro i terroristi kurdi minacciando l’ennesima invasione che dovrebbe porre la parola fine alla questione. In realtà, il fatto che i responsabili dell’attentato siano i kurdi è tutto da dimostrare; la persona, una donna, che è stata arrestata a poca distanza dall’esplosione, ed immediatamente riconosciuta come kurda proveniente della zona di Afrin, sembra sia invece vicina all’Isis dei cui combattenti pare sia stata per ben tre volte sposa.
Poco conta, il vero pericolo per Ankara sono i kurdi e, visto che l’anno prossimo in Turchia ci saranno le elezioni, è bene che qualcuno su cui deviare i veri problemi di quel Paese, situazione economica disastrosa, lira turca il cui valore continua a precipitare, totale mancanza di democrazia, si debba identificare. Senza contare che un contenzioso del genere, riconoscere che il vero problema non è solo interno ma anche esterno e con la stessa matrice terrorista (il PKK è nella lista delle organizzazioni terroristiche sia per la Turchia che per gli Usa che per la UE, mentre YPD lo è solo per la Turchia) non fa altro che rafforzare il sentimento “patriottico” e l’unità del popolo turco contro il comune nemico.
Se per il momento l’operazione di terra non è ancora partita, i turchi non si sono certo fatti mancare altri strumenti per vendicare il presunto torto subito; l’ora dell’operazione Claw Sward è immediatamente scoccata e gli F16 e i micidiali droni non si sono fatti attendere scaricando i loro ordigni praticamente su tutta la fascia di confine siriano. Naturalmente prediligendo le aree ad ovest dell’Eufrate (Tel Rifaat e Menbj) ma colpendo duramente anche Kobane, luogo simbolo della resistenza kurda contro l’invasione dell’Isis. I kurdi rispondono come possono ma a quanto pare uno dei razzi sparati da YPG è caduto in territorio turco causando alcune vittime (5) e provocando la funesta ira di Erdogan. Da parte loro, i turchi dichiarano di aver “neutralizzato” almeno 350 terroristi tra il NES (North Eastern Syria) e il Kurdistan Iraqeno dove sono basate le rimanenti milizie del PKK.
In verità, bombardamenti e droni turchi non rappresentano una novità; ciò che è cambiato è l’intensità e la loro frequenza. Già da mesi i cosiddetti omicidi mirati causati dagli attacchi di droni nei confronti di ufficiali del SDF (Syrian Democratic Forces) ed esponenti della Self Administration che governa il NES erano costanti e la loro mira spesso non esattamente precisa colpendo a volte anche civili che avevano la sfortuna di essere vicini agli obiettivi designati.
Ora però i principali destinatari della bombe turche sono i kurdi della sacca di Tel Rifaat di Menbij ancora governate dalla Self Administration; la prima considerata da Ankara e dai suoi “proxies” come un’anormalità in quanto enclave completamente isolata dal resto del Rojava, la seconda strategicamente di importanza vitale per i collegamenti con le aree controllate dai governativi ma anche per quelli verso il confine di Jarabulus che consentono buona parte dei traffici con la Turchia. Quanto a Kobane, se i turchi riuscissero a prendere quella città, avrebbero il controllo di tre quarti dei confini, fino a Ras el Ain (come la chiamano gli arabi) o Serekaniye (come la chiamano i kurdi). Rimarrebbe fuori la parte più orientale che però assieme alla provincia di Deir ez Zor custodisce la gran parte delle riserve petrolifere della Siria; anzi del NES in quanto tutta la regione è governata, bisogna capire fino a quando, dall’Amministrazione Autonoma.
I bombardamenti sia dall’aria che dall’artiglieria, continuano e l’azione via terra per ora rimane in forse. Qualche dubbio potrà essere risolto in questi giorni quando tra Ankara e Mosca si discuterà sia di Ucraina che di Siria. Le due cose vanno in parallelo anche se potrebbe sembrare strano. I russi hanno bisogno del sostegno, magari indiretto, di Erdogan e le relazioni con la Turchia rimangono vitali; dunque non è escluso che Putin, che però ha necessità di rimanere in buoni rapporti anche con Assad, possa chiudere un occhio di fronte, oltre che ai recenti bombardamenti che hanno interessato anche una loro base nei dintorni di Hasake, ad un’azione via terra purchè limitata.
Quanto agli Usa, probabilmente sarebbero disponibili a rassegnarsi all’intransigenza turca, tutto sommato, se limitata ai territori occidentali. Recuperare i rapporti da tempo tesi con Erdogan diventa un’esigenza importante soprattutto in chiave Nato. Nel frattempo, sempre gli Usa, stanno intessendo trame per conseguire un cambiamento a livello politico in NES sostenendo il Kurdish National Council (KNC/ENKS), partito copia del PKD del Kurdistan Iraqeno (KRI) “posseduto” dalla famiglia Barzani. Non si capisce quanto la Turchia possa essere interessata a tale eventuale cambio politico, ma visto che con il KRI funziona piuttosto bene, probabilmente potrebbe risultare un compromesso dignitoso. Questa ipotetica soluzione, non funziona altrettanto bene con i giovani kurdo-siriani del Revolutionary Youth Union (YCR) che rimangono fedeli alle idee di Apo Ochalan e dunque del PYD e proprio non ci stanno organizzando manifestazioni che spesso sfociano in disordini ed attacchi alle sedi del KNC/ENKS.
Cambiare il sistema politico in NES nonostante la profonda crisi economica e sociale che la regione deve affrontare, non sarà facile impresa. Certamente per gli Usa questa alternativa rappresenterebbe una soluzione che permetterebbe il totale ritiro delle loro truppe ed indebolire il partito che ora governa, magari permettendo l’azione turca, potrebbe facilitare il cambiamento.
Come al solito, per i kurdi siamo punto a capo; probabilmente hanno ragione loro quando dicono: “gi unici amici dei kurdi sono le montagne”. Purtroppo in Rojava sono rare anche quelle. Docbrino