Un intruso cattivo era dentro di me. Grazie alla scienza e alla sanità pubblica sto ricevendo cure e umanità
Caro Direttore ti scrivo:
non avrei mai pensato di dovere inviare una lettera a me stesso. Non l’ho fatto per un caso di sdoppiamento della personalità o per delirio di onnipotenza, ma perché ho deciso di utilizzare la rubrica “opinioni, lettera al direttore” e non un editoriale per una ragione semplice, quello che voglio raccontare è personale e ho deciso di farlo perché ritengo corretto rompere uno dei tabù che alimentano la paura in chi si trova all’improvviso nel vortice di una malattia considerata erroneamente incurabile. Parlo di vicende comuni a centinaia di migliaia di persone ogni anno che si trovano improvvisamente alle prese con un “alien” cattivo che ti cresce dentro e che cerca di ucciderti. Mi riferisco ovviamente a quello che per anni è stato tabù solo nominarlo: tumore… cancro. Comunque lo si chiami uno spettro sinistro che quando ti viene diagnosticato, spesso in maniera casuale perché asintomatico, diventa un chiodo devastante nel cervello, una spina che cerca di sopraffare la tua ragione prima ancora del corpo. Ovviamente una delle prime domande che si affacciano nella mente appena ricevuta la diagnosi di un tumore è una e drammaticamente sintetizzabile in una paura interiore: morirò? Cerchi di esorcizzarla questa domanda con la forza della ragione, ma è umano avere paura. A quel punto la risposta assolutamente individuale è caratteriale, c’è chi si deprime, chi finge di ignorare, chi reagisce cercando soluzioni. Di certo non serve non pensare alla malattia, non parlarne e comportarsi quasi come se non ci fosse, tenersi tutto dentro è una reazione spesso comune ma deleteria, anche se c’è sempre la paura di sentirsi isolati, portatori di uno stigma. Ma in realtà la cosa più difficile è convivere con l’incertezza perché il tumore irrompe nella vita come uno tsunami che sembra travolgere tutto: lavoro, affetti, progetti, sforzi e prospettive. Poi arriva la consapevolezza che devi combattere e che oggi ci sono strumenti più efficaci e che la scienza medica rende quella parola “inguaribile” sempre meno reale e che comunque il tumore non è mai incurabile. Questo ti dice la ragione, ma dentro di te la paura di morire resta latente e come un tarlo ti fa vivere un malessere persistente anche se magari esorcizzato dai comportamenti esteriori. La diagnosi è spesso vissuta, fin dall’inizio, come una sentenza infausta, diciamo che a sprazzi ti senti come un morto che cammina. Per fortuna se incontri i medici giusti la paura può essere combattuta. Ed io i medici giusti, almeno in questa prima fase, li ho incontrati. Ed allora viene la seconda parte di questa storia. Raccontare, non lo nego, forse serve più a me che a chi legge, ma credo potrete perdonarmi. Tutto inizia a metà febbraio scorso, quando una analisi del sangue annuale di routine mi evidenzia una forte anemia. A quel punto scattano i campanelli d’allarme e dopo una colonscopia, l’evidenza della presenza di un tumore all’intestino da asportare prima possibile. Già nel corso dell’analisi vengo edotto della presenza aliena da parte della gentilissima gastro-enterologa che conduceva l’esame che mi chiede se sono d’accordo nel fare venire subito il chirurgo a vedere e parlarmi. Mi rendo conto che l’affare e serio e ovviamente acconsento. Provo una certa meraviglia nel vedere che a presentarsi è direttamente il direttore della Clinica Chirurgica universitaria di Udine Prof. Giovanni Terrosu che mi accompagna nel suo studio e con grande tatto, ma senza nascondermi nulla, mi prospetta il futuro, soprattutto la necessità di asportare prima possibile l’ospite sgradito. Ovviamente acconsento avendo fra l’altro percepito, non solo grande professionalità nell’approccio, ma anche quell’empatia umana fondamentale in una fase delicata come quella. Inutile ripetere il turbinio di pensieri che a stretto giro arriva, ma forse anche caratterialmente sono abituato ad affrontare i problemi e combattere. La strada era tracciata e anche se alcuni ritardi dovuti alla incredibile indisponibilità della Tac necessaria per calendarizzare l’intervento (pare che l’ospedale Santa Maria della Misericordia abbia funzionante, al momento, solo una sala Tac su tre con tempi lungi d’attesa) ecco arrivare questi giorni. Il 19 marzo ultimo scorso sono entrato in sala operatoria. Non entriamo nei particolari ma quello che voglio certamente rilevare non è solo la professionalità dell’equipe che mi ha operato in “robotica” ma dell’intero reparto dove personale infermieristico, Oss e addetti alle pulizie lavorano in maniera efficiente, anche se traspare la difficoltà e la fatica di una situazione di carenze di personale superata grazie alla loro abnegazione. Nulla però si traduce in carenze nei confronti dei pazienti. Dopo 7 giorni, alcuni difficili, sono stato dimesso, ora sono a casa, ma ovviamente non è finita, anche se c’è la constatazione di aver superato un primo grande scoglio deludendo probabilmente i tanti nemici che in tanti anni di professione giornalistica mi sono fatto. Per quanto riguarda il seguito delle cure ci sarà la presa in carico oncologica in data ancora da destinare dato che ci vorranno 20 giorni per l’esame istologico su quanto è stato asportato, poi si vedrà. In ogni caso anche se l’ombra del mostro è ancora lì a fare paura, devo confermare un giudizio più che positivo della risposta operativa della sanità pubblica friulana che, nonostante sia palesemente sotto attacco da parte di politicanti senza scrupoli e dagli interessi probabilmente opachi che vorrebbero favorire il privato, riesce ancora a garantire le cure, ribadisco, grazie alla professionalità e abnegazione del personale. Viene però da chiedersi, fino a quando? Speriamo nell’auspicabile inversione di tendenza e che i soldi per la sanità vadano tutti o quasi a sostenere chi effettivamente cura al di là dello spessore del portafoglio. Sarà una battaglia che mi vede ancora di più motivato.
Fabio Folisi