Black Star, tragedia della violenza. Racconto amaro sulle nostre paure del diverso

Il 23 e 24 novembre, si è tenuta a Udine per Teatro Contatto la prima assoluta di Black Star, un lungo atto unico – forse una tragedia contemporanea – scritto da Fabrizio Sinisi per la regia di Fabrizio Arcuri. Sinisi è poeta e dramaturg le cui opere, rappresentate in tutta Europa, si sostanziano di versi a scandirne il dettato; Arcuri, regista pluripremiato, è noto anche per la sua collaborazione con il CSS. La regìa ha saputo indicare agli attori la millimetrica interpretazione dell’opera di Sinisi, un testo lucido, profondo. Vanno pertanto applauditi, a lungo come nella sala Pasolini del Teatro Palamostre, gli attori che a turno sono protagonisti, non solo personaggi: Gabriele Benedetti, Martin Chishimba, Michele Guidi, Aglaia Mora, Maria Roveran. Rilevanti sono pure le musiche live di Giulio Favero (chitarrismo simpatetico, non banale), le scene e i costumi di Luigina Tusini (minimali, intime e immedesimanti o luccicanti e kitsch).
Il tema conduttore di Black Star è la violenza declinata nei modi – economico, sentimentale, personale, politico, storico – della nostra società. Una violenza mai visibile ma identificabile, raccontata, letteralmente affabile: spesso gli attori recitano immobili davanti a un’asta microfonica di scena. Ed è così ben studiato il tasso di metateatralità (tanto nella scrittura quanto nella regìa), che i minimi ma continui riferimenti alla rappresentazione sviano e volte sfasano l’attenzione del pubblico. L’opera in sé è meritoriamente stratificata, non basta una sola lettura interpretativa perché non affronta un solo tema. L’opera non è semplicistica, ma complessa come le nostre esistenze che si formano col sovrapporsi di esperienze diverse e a volte contraddittorie. Nonostante ciò, per praticità proverò a fornire quella che mi pare la lettura interpretativa che soggiace a tutte le altre.
Grock, un afrodiscendente vestito da clown-mendicante, sta in disparte, in silenzio: è la fantasima attorno a cui tutto ruota. D’intorno si sviluppano e s’intrecciano alcune vicende umane che ci raccontano dell’innamoramento di una ricca borghese nei confronti di un pezzente di colore; dell’irruzione nella casa di una coppia borghese – e in crisi – di uno sbandato di colore che violenta e uccide la figlia; delle indagini piegate a rivalse personali, ideologiche e non all’accertamento dei fatti; di una manifestazione in cui un «ragazzo nero» viene impiccato. (È Grock? Chi è Grock: l’accattone, lo stupratore-omicida, l’indiziato, l’impiccato?)
La rappresentazione tutta tocca nervi scoperti di cui non si è ancora capita l’importanza costitutiva all’interno dell’organismo societario. Il monologo finale di Grock a luci accese – perfetta la circolarità: lo spettacolo si era aperto con il monologo a luci accese della ricca borghese Laura seduta in platea – dapprima suona come una confidenza fuori onda, poi come un’assoluzione derisoria della nostra società, del nostro essere bianchi e dunque privilegiati. La climax di scavo psicologico e sociale cui si è partecipato fino all’impiccagione (fino alla narrazione dell’impiccagione), è messa in discussione nel finale che porta alla ribalta gli elementi tipici della narrazione da noi propinati banalizzandoli: gli africani che danzano, a contatto con la natura, le loro tribù, il destino avverso all’Africa e ai suoi abitanti… Decontestualizzando quanto raccontato e messo in scena in precedenza, l’autore e il regista sono riusciti a schernire moralisti e buonisti con la coscienza in subbuglio per l’avvicendamento della narrazione e il suo punto d’arrivo catastrofico. Ma essi sono quegli stessi che trovano remissione delle proprie paure del diverso, dell’“uomo nero”, del black star, senza accettare persone e vicende per quello che sono: m’indigno, ma non mi riguarda; tutto a posto, a breve è Natale.

Carlo Londero

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