Cimolai nella bufera, chiede la ristrutturazione del debito. Alla base errori finanziari legati ai diabolici “derivati”, strumento della speculazione

La Cimolai di Pordenone è uno dei colossi simbolo dell’industria del Nord Est specializzato nella progettazione, costruzione e posa in opera di strutture metalliche. Ha un portafoglio ordini da 830 milioni di euro al netto delle opere legate al Pnrr nelle quali l’azienda potrebbe avere un ruolo di primo piano. Eppure, nel mondo impazzito del denaro che sovrasta il lavoro, dell’inflazione galoppante e dei giochi monetari, il gruppo Cimolai si trova in grave difficoltà. Nei bilanci dell’azienda di Pordenone specializzata in grandi opere in acciaio si è infatti aperto un buco causato da vari contratti derivati, realizzati con più di una ventina di banche diverse, che attualmente hanno un valore negativo, pare di un miliardo di euro. Così dopo i tanti rumors Cimolai ha provveduto al deposito presso il Tribunale di Trieste della domanda di accesso agli strumenti di regolazione della crisi previsti dal Codice della crisi d’impresa. Lo ha comunicato con una nota l’azienda che ora ha 120 giorni di tempo per presentare le sue proposte. “Nel Piano di ristrutturazione che la società sta elaborando – fanno sapere dal Gruppo- è previsto un importante rafforzamento patrimoniale al quale hanno già manifestato interesse diversi soggetti italiani ed esteri”. Certo che sarebbe da approfondire come il colosso pordenonese delle grandi opere in acciaio sia arrivato ad un’esposizione ai contratti derivati miliardari dimostrazione di come il sistema finanziario sia malato. Alcuni di questi contratti, i più speculativi, ma anche quelli “semplici” ad effetto domino hanno creato problemi per effetto della repentina caduta dell’euro sul dollaro, con conseguenze negative sui conti dell’azienda. La recente cronaca ci racconta che si tratta di derivati stipulati dall’ex direttore finanziario (appena allontanato dall’azienda assieme al capo della tesoreria) per coprire le attività estere del gruppo dal rischio che l’euro salisse troppo ed erodesse i margini. Una valutazione che si è dimostrata errata dato che l’euro non solo non è cresciuto, ma anzi è crollato ai minimi da 20 anni. Così i derivati, come un elastico troppo tirato, sono tornati indietro in faccia a chi li aveva stipulati. Così i derivati che sarebbero dovuti servire per coprire i rischi sono diventati il rischio. Nel caso di Cimolai, come detto, i problemi sono principalmente valutari dato che la maggioranza dei contratti del portafoglio ordini sono in dollari. Per questo l’esposizione è davvero enorme, con oltre 20 banche internazionali, ma soprattutto perchè alcuni di questi derivati sono particolarmente aggressivi in quanto tarati su un valore dell’euro decisamente elevato rispetto al dollaro, così negli ultimi mesi, quando il dollaro ha iniziato a correre, quei derivati sono andati in  gigantesca perdita. I derivati, che qualcuno considera strumenti del diavolo, intendendo non belzebù ma gli speculatori finanziari che sono i veri padroni del capitalismo mondiale (come la crisi energetica dimostra). funzionano infatti con delle garanzie (cash o titoli di Stato) che le due controparti (cioè la società o la banca) devono versare a seconda di come si muove il prezzo del derivato, e questo ogni santo giorno. Per capirci funzionano un po’ come le mensilità anticipate che si versano quando si affitta un appartamento: servono per garantire la controparte in caso di mancato pagamento. Dato che i prezzi dei derivati sono andati molto in rosso per Cimolai, le banche controparti hanno iniziato a chiedere al gruppo di Pordenone di reintegrare cash le garanzie in maniera sempre maggiore. Il risultato è che il gruppo Cimolai (pare) non sia riuscito a reintegrare tutte le garanzie e che una delle tante banche abbia minacciato il «failure to pay». Cioè dichiarare l’inadempienza per il mancato pagamento. Questo secondo la classica logica bancaria relativa ai “cattivi pagatori” e che prevede che “quanto piove ti tolgo l’ombrello” dovrebbe far scattare le altre banche, che avrebbero il diritto di chiudere i contratti e chiedere a Cimolai tutti i soldi. Va da se che c’è una certa discrezionalità e che questa si presta a manovre speculatorie che possono andare anche al di là degli aspetti finanziari, ma magari “spinte” da qualche concorrente con migliori entrature nei confronti del sistema bancario. La risposta dell’azienda di Pordenone per questo è stata rapida e si è concretizzata nel  chiedere l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi previsti dal Codice della crisi d’impresa che vuol dire ristrutturazione del debito. Ovviamente non è un bel segnale di solidità e in qualche caso la storia ci racconta che la cura si è rivelata peggiore del male.