Da Tienanmen alla “via della Seta” un filo lungo 30 anni che ci ha cambiato in peggio
Da Tienanmen alla “via della Seta”. Quando una persona, un partito, un governo o un Paese perdono il filo dell’etica e della moralità sacrificando il proprio agire agli interessi rapace dei mercati e degli affari, non si può che parlare che di sistema in decadenza. Per questo la protesta di Tienanmen nonostante il trentesimo anniversario è uscita dal radar dei media impegnati a megafonare le sparate di Salvini, quelle di Di Maio o più in generale la crisi del governo giallo-verde. In realtà la situazione italiana non è ormai molto dissimile, per molti versi e con le dovute differenze, da quella che si respirava nella Pechino del 1989, perchè oggi il capitalismo globalizzato sta producendo una società sempre più diseguale, una forbice sempre più aperta fra un pugno di iper ricchi e potenti e il resto del mondo, dove la miseria si appiattisce verso il basso assorbendo anche la classe media. Tutto questo anche se la percezione che viene inculcata, non è quella dell’ingiustizia e della diseguaglianza, non è quella di una società dicotomica da abbattere, bensì di una società gerarchica, fondata sulla scala dell’ascesa o della caduta individuale. Chi sta in basso nella scala sociale non tende più ad allearsi con i suoi “vicini” nella lotta contro i “capi”, ognuno cerca di progredire per proprio conto: e chi sta indietro peggio per lui; la concorrenza individuale in sostanza è più forte della solidarietà collettiva. Il risultato che è che pochi progrediscono e che l’ascensore sociale resta drammaticamente al piano terra. Così il sindacato, descritto come un desueto arnese, diventa utile solo quando hai bisogno dei suoi servizi o diventa zattera di salvataggio nelle crisi, dove comunque prevale sempre l’individualità. La lotta collettiva viene facilmente abbandonata alla prima occasione di salvare la propria personale “posizione” in trattativa privata. Tutto molto umano o meglio molto “animale”se fossimo nella giungla. Un capolavoro delle classi dirigenti che è sfuggito alle antenne di un centro-sinistra che ha abbracciato logiche liberistiche o di una sinistra che non ha mai smesso di guardare il proprio ombelico. Così si è passati dalla solidarietà, alla guerra fra poveri con l’annientamento di diritti collettivi innestando paure ed “invidie” sociali. Una gioco molto pericoloso che, la storia ci insegna, ha aperto sempre la strada alle “facili” soluzioni autoritarie, alla ricerca dell’uomo forte che risolva i problemi. Ci si accontenta magari del minimo spazio virtuale, per ritagliarsi un minimo “successo” nella vita social dove tutti si sentono “re” detentori di “parola” e immagini dimenticandosi di essere in balia degli algoritmi. Così la vita di milioni di persone diventa un selfie o un post e quel momento di celebrità, in un mondo virtuale quindi falso, diventa sostitutivo di una intera vita. Ebbene di tutto questo non solo il nostro “occidente” è portatore, ma forse perfino di più lo è il colosso cinese che come i dimenticati fatti di Tienanmen dimostrano, non ha più neppure il problema di avere una opposizione. Del resto sono passati 30 anni dalla strage di piazza Tienanmen, quando il mondo si indignò, quando in Cina l’esercito uccise centinaia di manifestanti che chiedevano riforme e democrazia. 30 anni fa, nella notte tra il 3 e il 4 giugno del 1989, in piazza Tienanmen a Pechino, l’esercito trucidò centinaia di manifestanti che da mesi protestavano per chiedere al governo di intraprendere la strada delle riforme e della democrazia. La tragica conclusione di questa serie di proteste era ricordata in tutto il mondo come la strage di piazza Tienanmen, era ricordata e lo è sempre di meno perchè oggi la Cina non è più un mostro comunista da abbattere ma un paese con il quale fare affari o quantomeno raccogliere le briciole. Poco importa se in quel paese la libertà è un optional e non certo perchè è comunista, come optional lo sono i diritti dei lavoratori e il welfare. Non si spiegherebbe altrimenti il perchè molti imprenditori italiani sono affascinati dalla struttura produttiva di quel paese dove tutto si può fare, dove nessuno controlla e quando ciò avviene basta oliare i giusti ingranaggi per uscirne, sulla carta, lindi e onesti anche se i reati sono degni di peggior galeotto. Ma torniamo alla storia, 30 anni fa l’inizio, della rivolta coincise con la marcia d’aprile per le strade di Pechino di centinaia di migliaia di studenti e lavoratori che chiedevano più libertà (politiche, sociali ed economiche) e meno corruzione. Il 13 maggio 1989 gli stessi studenti cominciavano uno sciopero della fame.
Dopo in una prima fase aver tollerato le proteste, il governo cinese decise di proclamare la legge marziale in tutto il paese consentendo ai carri armati di entrare nella piazza di Pechino. Nelle proteste, secondo l’organizzazione umanitaria Amnesty International, vennero uccise mille persone. Se non fosse stato per un video che racconta una vicenda incruenta ma individuale probabilmente anche quel minimo di memoria sulla strage sarebbe stata destinata all’oblio. Nel video, uno dei pochi momenti documentati e rimasti nell’immaginario collettivo quando si parla della strage: un uomo con due buste della spesa in mano ferma con il suo corpo una fila di carri armati.
È il 5 giugno 1989, già da 24 ore procede implacabile l’intervento militare per schiacciare la “primavera democratica”, quando diversi fotografi occidentali affacciati alle finestre del Beijing Hotel riprendono la scena. Una colonna blindata scende lungo il Viale della Pace Eterna, di colpo è costretta a immobilizzarsi. Un giovane si è piazzato in mezzo alla strada, blocca il carrarmato di testa.
Sta ritto in piedi, con la mano sinistra tiene una giacchetta a penzoloni, con la destra due sacchetti di plastica della spesa. La scena sembra irreale: i tank fermi uno dopo l’altro in fila indiana, quella figura esile che sembra ammaestrali come fossero pachidermi d’acciaio. L’autista del primo blindato fa manovra, cerca di aggirare il ragazzo sulla destra. Ma lui gli si para davanti ancora, allarga le braccia come si fa per domare una bestia. Poi il giovane fa un salto, sale sul carrarmato per parlare col soldato visibile dalla feritoia. “Tornate indietro! Smettete di uccidere il nostro popolo!” è l’urlo che i testimoni narrano. Poi tutto finisce in un attimo: il ragazzo è sceso dal blindato, circondato da amici che lo aiutano a scappare sparisce nel nulla. Nonostante le tante ricerche la sua sorte è rimasta un mistero affascinante, un fantasma della libertà. In Occidente quelle foto divennero il ricordo di un coraggio inaudito, rafforzarono la solidarietà verso la protesta studentesca. Nel trentesimo anniversario del massacro, ricostruire quelle ore aiuta a capire la strategia della repressione e quanto questa stia rapidamente prendendo piede sotto l’etichetta “sicurezza” anche nel nostro paese. La Cina di oggi è figlia del dopo-Tienanmen, quando il regime stabilì un nuovo “ordine” e una logica inequivocabilmente capitalistica .
In molti si sono chiesti come mai quel ragazzo non fosse stato schiacciato dai carri, cosa che avvenne tranquillamente lontano da Tienanmen. I massacri peggiori avvennero all’ingresso dei blindati in città, e nelle aree di Fuxingmen e Muxidi”, il numero delle vittime è tuttora un segreto di Stato, Deng Xiaoping, l’anziano leader che orchestrò l’intervento dell’esercito, non volle lasciare in eredità al regime comunista la maledizione di una carneficina avvenuta in un luogo troppo gravido di storia patria, Tienanmen è infatti da secoli il luogo sacrale del potere cinese, posta all’ingresso della Città Proibita dove viveva l’imperatore. La sua importanza è stata rafforzata dall’iconografia rivoluzionaria: il rinascimento repubblicano della Cina, paradossalmente, si fa risalire alla manifestazione degli studenti il 4 maggio 1919 in quella piazza; Mao Zedong poi vi proclamò la vittoria del comunismo nell’ottobre 1949. Le stime raccolte da Amnesty International sulle vittime variano fra 700 e 3.000 morti. Il ragazzo che sfidò i tank senza che dai blindati partisse un solo colpo o una “accelerata” risolutiva, era per fortuna troppo vicino a Tienanmen: una piazza dal troppo potente significato simbolico, dove i leader comunisti vollero ridurre al minimo lo spargimento di sangue. Probabilmente questa è la verità, anche se ci piace pensare
come Bertolt Brecht che in una sua poesia scriveva:
Generale, il tuo carro armato è una macchina potente spiana un bosco e sfracella cento uomini.
Ma ha un difetto: ha bisogno di un carrista.
Generale, il tuo bombardiere è potente.
Vola più rapido d’una tempesta e porta più di un elefante.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un meccanico.
Generale, l’uomo fa di tutto.
Può volare e può uccidere.
Ma ha un difetto:
può pensare.