Friuli e friulani nel XXI secolo
Friuli e friulani sono termini che frequentiamo abitualmente senza riflettere troppo su cosa significhino. Attualmente poi, in previsione della prossima festa elettorale, ci affrettiamo a confrontarci su cosa fare per superare la fase di declino proprio del Friuli come area geografica e dei friulani come soggetto politico. Vincenzo Martines richiama la geografia della “Piccola patria” e il “popul o la int” come protagonista democratico nel rilanciare un ruolo di Friuli protagonista. Nel pullulare di ricette pervenute di questi tempi al MV, pur tra molte cose onorabili, non mi pare scoccare alcuna scintilla capace di provocare l’incendio. Ho come l’impressione che l’aumentata capacità conoscitiva e di analisi che il mondo di oggi ci offre non riesca a focalizzare obiettivi precisi su cui indirizzare le frecce. La seconda metà del secolo scorso aveva idee conflittuali più chiare: tra Friuli e Venezia Giulia c’era una linea di separazione e i friulani veri parlavano in friulano. Eravamo il confine del mondo libero e le correnti della DC ci proteggevano in campo economico e sociale.
Oggi le cose sono cambiate: il Friuli è una area geografica definibile a fisarmonica e i friulani praticano molte lingue tra cui anche una propria ufficialmente riconosciuta. Contrariamente alle illusioni il potere politico (istituzionale) non si identifica con la geografia del Friuli e, travolto dagli eventi italiani, ripropone un modello di “piccola patria” a lode e gloria del futuro della nazione del tricolore. Non è un caso che tra i candidati forti di FdI vi siano autorevoli esponenti del friulanismo quali il Presidente della ACLIF (Assemblea della Comunità linguistica friulana) Markus Marmair, e gli ex sindaci di Rivignano-Teor e Lestizza Mario Anzil e Valeria Grillo. In tempi di magra è giusto accontentarsi di quel che passa il convento.
Ma dove è finita la “nazione Friuli”? Fieri guerrieri celtici raccolgono firme per consentire a Marco de Agostini di lamentarsi della legge elettorale in nome del MF storico, altri si indignano per la scelta del Patto per l’Autonomia di guidare una coalizione politica regionale infestata da partiti italiani, e, per quanto riguarda le “masse popolari”, il dubbio se votare o meno (ancora per la Lega, per la Civica di Fedriga o per FdI) regna sovrano. Nei gloriosi anni del terremoto (1976) parlare di “nazione Friuli” significava avere diritto di iscriversi all’albo degli “Stati” perlomeno come luogo della democrazia amministrativa: la lotta di liberazione nazionale partiva dall’Università e finiva con una Regione-Nazione. Grazie a qualche tenace militante la lingua non solo si è salvata dalla estinzione ma, oltre a far sparire il dialetto veneto udinese, si sono create le condizioni per farne uno strumento dialettico di conoscenza e di interpretazione del mondo, utile per il cervello. La lingua e la complessità di relazioni che si producono nei percorsi di evoluzione nazionale possono essere un formidabile luogo di produzione di capitale semantico. Le discipline dell’arte, della cultura e della scienza ne possono trarre sicuri vantaggi.
Ma gli spazi delle scelte e decisioni politiche non possono più coincidere con gli spazi della nazione: la nazione come luogo della sovranità è una favola raccontata da Giorgia a cui credono alcuni italiani e che trasferita nelle nostre città e paesi diventa ancora più incredibile.
Basta riflettere alle decisioni da prendere per governare un fiume. La geografia della politica ha bisogno di potersi sviluppare sulla dimensione dei problemi da affrontare: e la stessa democrazia, per essere uno strumento adatto alla gestione del potere, deve potersi ricostruire su caratteristiche adeguate alla praticabilità dei suoi percorsi. Ci sono geometrie variabili necessarie a confrontarsi con gli elementi fisici terrestri e vanno dalle istanze globali alle ricadute territoriali.
Senza una prospettiva di questo tipo non rimane altro che il gioco della forza (e quindi in ultima istanza della guerra) per decidere i futuri, soprattutto quando si pensa che il proprio impero sia più importante di quello del vicino. Il ritardo del Friuli nel costruire le proprie caratteristiche di nazione, su cui peraltro sarebbe interessante una ricostruzione storica, può oggi, proprio nella sua indeterminatezza diventare una ghiotta opportunità per leggere le necessità che ci stanno di fronte. Area geografica non proprio ben definita, abitata da una pluralità di provenienze ma anche caratterizzata da proprie specifiche ricchezze antropiche e naturali, tra cui quella linguistica, può proporsi come luogo di relazioni proiettate sia verso l’esterno che nella ricerca di riequilibri interni territoriali gestibili senza perdere le fondamenta di un radicamento. Non sarebbe la prima volta, basta ricordare Longobardi, Franchi, la “vastata hungarorum”, e lo sconcerto di Dante per la parlata ritrovata.
La nazione Friuli può giocare la sua partita non certo come sentinella della patria sui confini minacciati dal nemico “todesc e sclaf” ma come spazio geografico aperto, orgoglioso delle proprie potenzialità capace di disarmare le velleità nazionaliste che le visioni politiche retrotopiche fanno ancora imperversare anche in giro per l’Europa.
Polo attrattivo di nuove geografie e guida saggia di adattamento al cambiamento climatico ed alla transizione energetica resiliente. E se nel fare questo tocca tenersi tra i piedi la città di Trieste non mi pare sia da stracciarsi le vesti. Come dico da anni, in fin dei conti in Consiglio Regionale siedono almeno l’80% di friulani. Senza dimenticare che oggi Trieste e Capodistria vorrebbero fare nel Mediterraneo più o meno quello che faceva la imperiale Aquileia.
Giorgio Cavallo