Il Barometro dell’odio by Amnesty International, certificata la criminalizzazione del dissenso sui social e media mainstream

Sono anni che Amnesty International realizza il Barometro dell’odio, siamo alla settima edizione che è stato quest’anno focalizzato sulla narrazione relativa al diritto di protesta. “A livello globale, così come in Italia, si legge nell’introduzione del rapporto, stiamo assistendo a un’erosione degli spazi utilizzati dalla società civile per esprimere dissenso attraverso diverse modalità: dall’iper-burocratizzazione all’emanazione di leggi criminalizzanti; dalla repressione fisica al ricorso sistematico a provvedimenti amministrativi. A tutto ciò si accompagna una narrazione che delegittima e criminalizza la protesta nelle sue varie forme e chi la porta avanti. “Si considera che alcune forme di intervento di disobbedienza civile attaccano lo stato di diritto. Questa è la retorica che viene presentata. In realtà è l’opposto, è un’incapacità dello stato di diritto di funzionare in maniera democratica e di trasformarsi ascoltando anche le voci critiche” ha spiegato ad Amnesty International Donatella Della Porta, docente in Scienza politica presso la Scuola normale superiore di Pisa. Promuovere costantemente di una narrazione di questo tipo contribuisce a creare un clima in cui interventi repressivi o criminalizzanti più o meno diretti possono passare inosservati o risultare giustificati. In sostanza, un’operazione di delegittimizzazione e criminalizzazione del dissenso su larga scala può portare, come già avvenuto con il mondo della solidarietà, a considerare come forme di protesta illegittima anche attività in precedenza considerate a tutti gli effetti benefiche, sopperiscono alla mancanza di politiche da parte dello stato (per esempio prestare aiuto come singoli individui o come movimenti in circostanze in cui non vi è una chiara regolamentazione che lo preveda, come nel caso dei movimenti che portano avanti rivendicazioni per le persone migranti)”.

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“Abbiamo indagato l’ambito della narrazione del dissenso soffermandoci su due aspetti: il dibattito sui social media e il racconto dei media mainstream. Alla raccolta e analisi di dati quantitativi basati sui contenuti osservati, abbiamo affiancato le interviste a persone attiviste e un sondaggio di opinione. Ne è emerso che l’incidenza di contenuti problematici e, in particolare, di hate speech è aumentata. Rimasta costante a partire dal 2019 nelle osservazioni di Amnesty International, quest’anno cresce fino al 15,3% (in passato si attestava intorno al 10%) la somma di contenuti
offensivi, discriminatori e/o hate speech o se preferite “discorsi d’odio”. Triplicano i veri e propri discorsi che incitano all’odio, alla discriminazione e alla violenza, che superano il 3% del totale di contenuti analizzati. Come sempre a generare la maggiore incidenza di odio in rete è il tema dell’immigrazione. L’analisi, che ha preso in esame il dibattito sui social media e il racconto dei media mainstream dal 1° gennaio al 31 dicembre 2023, sottolinea in generale un preoccupante trend verso la criminalizzazione del dissenso e la delegittimazione delle proteste, fenomeni che minano profondamente la democrazia e il diritto di espressione.

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Il Barometro dell’odio 2023-24 rivela un aumento significativo dei contenuti problematici o hate speech: dal 2019 ad oggi il tasso di discorsi offensivi, discriminatori o che incitano all’odio è passato dal 10% al 15%. In particolare, i contenuti che incitano alla discriminazione e alla violenza sono triplicati, superando il 3% del corpus analizzato. Questo dato è particolarmente preoccupante se si considera l’analisi dei social media (Twitter e Facebook), poiché l’odio online, quando massiccio, può comportare conseguenze devastanti sulla salute mentale e fisica delle persone che vengono attaccate. Su Facebook, ad esempio, 4 commenti su 10, attinenti al tema del diritto di protesta, sono problematici e di questi il 15,6% incita all’odio, alla discriminazione e/o alla violenza. Le aggressioni digitali spesso si accompagnano a operazioni di diffamazione e violazione della privacy, con l’obiettivo di screditare e silenziare le voci dissenzienti
Se si considera poi l’analisi fatta sui media mainstream che ha preso in esame 333 servizi andati in onda in prima serata sui sette principali telegiornali nazionali (Tg 1, Tg 2, Tg 3, Tg 4, Tg 5, Studio Aperto, Tg La7), ne risulta una chiara tendenza a focalizzarsi più sugli “effetti collaterali” delle proteste, piuttosto che sulle motivazioni alla base. Spesso il tono utilizzato è critico e comprende l’uso di termini come “ecovandali” e “delinquenti” per descrivere le persone attiviste o manifestanti. Nell’ambito della ricerca per il Barometro dell’odio è stato inoltre condotto un sondaggio, in collaborazione con Ipsos, per rilevare quale fosse la posizione dell’opinione pubblica rispetto all’attivismo e alle varie forme di protesta. È emerso che il 48 per cento delle persone intervistate vede le manifestazioni come un passatempo o una moda, mentre il 17 per cento non crede che tutti, in Italia, dovrebbero avere il diritto di manifestare. Questa percezione pubblica conferma le preoccupazioni delle persone attiviste, che vedono le loro azioni delegittimate e criminalizzate, non solo dalle istituzioni ma anche dall’opinione pubblica.

Amnesty International Italia chiede un intervento deciso da parte delle istituzioni, nonché delle principali piattaforme social, per garantire e proteggere il diritto di protesta, un elemento fondamentale per il funzionamento di una democrazia sana e inclusiva, che rispetta i diritti umani.

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