Il governo dei migliori, ma migliori per chi e per cosa?
Se il buon giorno si vede dal mattino si può dire che le aspettative, alte, altissime, sul governo Draghi si sono già infrante. Doveva essere il governo dei migliori, ma scorrendo l’elenco dei ministri e dei sottosegretari cosi non è. Intendiamoci, dobbiamo capire cosa si intende per migliori, migliori per chi e per cosa. Se l’idea è quella di andare ad una progressiva restaurazione del sistema italico basato sulla difesa di privilegi e promozione più o meno consapevole dell’ingiustizia sociale, allora ci siamo, se invece si intendeva dare risposta alle richieste di cambiamento profonde allora la parola migliori, dinnanzi alla “levatura” della maggior parte degli uomini e delle donne in campo, naufraga miseramente e non poteva essere che così. Non solo perchè qualsiasi effettiva operazione di rifondazione della Repubblica italiana seguendo per davvero le linee dettate dalla Costituzione non può essere possibile in quanto confligge con il sistema economico finanziario internazionale, ma perchè, pur riconoscendo a Mario Draghi la capacità di essere a suo modo innovatore, rimane un uomo del sistema e per quanto illuminato ed intelligente, resta ingranaggio dorato in un macchinario obsoleto, dove la convenienza personale o di becera parte prevale perfino sul buonsenso e sul bene comune. Del resto il doppio binario sul quale dovrà muoversi Mario Draghi è chiaro e non lascia ampi spazi di manovra constatando che emergenza sanitaria ed economica, allo stato dell’arte, non sono compatibili se non nella fantasia. La prima, quella di garantire la salute dei cittadini non sempre o meglio quasi mai, è conciliabile con le necessità di produzione mercantile, sia essa l’Ilva di Taranto che, oggi in piena pandemia, del ristorantino dell’angolo. Ed allora ecco che in una frasetta apparentemente banale nel discorso di Mario Draghi alle Camere si capisce, favolette su sostenibilità ambientale a parte, la filosofia dell’uomo: “Vanno protetti tutti i lavoratori, non tutte le attività”. Per capire meglio andiamo indietro nel tempo e citiamo quello che per molti, per fortuna non per tutti, è stato un “campione” operativo dell’economia della ripresa, quel Sergio Marchionne “salvatore” della Fiat ma non certo dei suoi lavoratori, al quale però bisogna riconoscere di aver esternato il suo pensiero in maniera chiara. Era semmai certa presunta sinistra a non capirne le parole osannandolo, quasi fosse un nuovo profeta dell’anticapitalismo, e non ingranaggio innovativo dello stesso, dorato esattamente come oggi lo è Draghi. Era il gennaio 2010 e Marchionne sulla questione dello stabilimento di Termini Imerese diceva «non è in grado di competere», la decisione di chiuderlo «è irreversibile». L’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, dal palco dell’Automotive News World Congress, ribadiva così la posizione del Lingotto e precisava: la Fiat è un’azienda e ha le responsabilità di un’azienda. Non ha le responsabilità di un governo, è il governo che deve governare. «Siamo il maggiore investitore in Italia, ma non abbiamo la responsabilità di governare il paese». Poi citando Aristotele, Marchionne affermava: «La differenza fra orgoglio e vanità è che una merita gli onori l’altra li riceve. Le società saranno motivo di orgoglio se saranno in grado di stare in piedi sulle loro gambe e competere» dimenticando ovviamente le prebende e i favori che la “cosa pubblica” per decenni aveva fornito alla Fiat disegnando un paese intero ad uso e consumo della mobilità su gomma. Chiarissima quindi la posizione aziendale, ma Draghi che oggi le responsabilità di governo le ha, può davvero fare come Marchionne e fare spallucce dinnanzi alle aziende che chiudono e chiuderanno scordando il passato? La risposta è evidente, certo che sì, dato che la provenienza dell’ennesimo salvatore della patria è ideologicamente precisa e funzionale, è stato messo lì per questo, nel dubbio che Giuseppe Conte non fosse affidabile da questo punto di vista. Intendiamoci non è che sul tappeto vi siano opzioni diverse dato che la sinistra intera (si fa per dire vista la sua frammentazione) da decenni non ha un progetto alternativo e vivacchia alla ricerca, se non di una terza via, almeno di un vicolo dal quale difendere i principi di giustizia sociale e libertà che dovrebbero essere spirito operativo e non solo nostalgiche enunciazioni parafilosofiche da lontani, molto lontani, nipotini del Pci d antica memoria. Pd e Leu, anzi Articolo Uno, potrebbero tentare l’ardua via coinvolgendo i grillini, ma a patto di aprirsi per davvero ai territori abbandonando personalismi e dibattiti nelle segrete stanze, ma c’è poco da essere ottimisti. Non resta quindi che sperare che da Draghi vengano messe in campo soluzioni, magari perchè casualmente utili al suo sistema, soluzioni di ammortizzazione sociale e reddito tali da non far lievitare in maniera incontrollata la povertà che è ovviamente ben lungi dall’essere stata sconfitta. Del resto troppa povertà non genera consumi e senza consumi i ricchi non diventano sempre più ricchi e non capitalizzano le banche, in quella ruota del consumo dove a correre e il “cittadino criceto” che spende più di quel che guadagna diventando ostaggio del sistema bancario. Ma è chiaro che la logica non sarà quella di redistribuzione dell’economia ma al massimo di caritatevole elargizione di bonus e prebende per evitare eccessive tensioni sociali ed un crollo assoluto dei consumi che non fa bene all’economia capitalistica. Ed allora per capire torniamo ai fondamentali e facciamo da sinistra quello che da Marchionne a Draghi hanno certamente fatto, studiare le tesi del “nemico” di classe per poi applicarle a proprio vantaggio. Per esemplificare diciamo che è notorio che Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista definivano il potere statale moderno come il comitato d’affari della borghesia. Questa considerazione, spesso abusata, sembra calzare a pennello sulla genesi del governo Draghi e sul suo probabile ruolo all’interno dello scenario politico attuale. Gli indizi ci sono tutti, la beatificazione mediatica preventiva a reti unificate del nuovo salvatore accompagnato dell’entusiasmo dei “mercati” e delle cancellerie occidentali, per non parlare dell’investitura di Confindustria e delle altre consorterie imprenditoriali, piccole e medie, artigiane e commerciali, tutti osannanti e plaudenti, sicuramente appoggiati da un circo Barnum mediatico di rara accondiscendenza che sta avendo qualche blando cedimento di onestà intellettuale quando ha visto la “qualità” dei sottosegretari. C’è poi un elemento in più in questa convergenza momentanea delle borghesie italiane e transnazionali sulla governance by Mario Draghi. Tutto avviene con il riflusso del movimento sovranista globale, la sconfitta di Trump negli States. Così in zona destra, a fare la voce grossa torna ad essere il partito del Nord rappresentato non da Salvini ma da Giorgetti. Infatti denudato dei panni dell’euroscetticismo ci resta un Salvini senza salvinismo che si limita a qualche rigurgito per non dire rutto. Il progetto dello sfondamento a Sud, la retorica sovranista finiscono così in soffitta nel giro di un mese dall’assalto a Capitol Hill e le forche caudine della responsabilità istituzionale sono il prezzo da pagare per un eventuale futuro governo di centro-destra con il favore degli industriali. Perfino la tiepida opposizione di destra By Meloni, resta finalizzata a quel futuro obiettivo, sotto l’ombrello della favoletta patriottica. Del resto come lasciare un piatto ricco come quello del recovery ad un apprendista come Giuseppe Conte che non dava sufficienti garanzie di essere un utile idiota. Ed anche Draghi non può stare sereno, deve essere marcato stretto, perchè l’imperativo categorico è concentrare i flussi di capitale del Recovery su banche e imprese e sappiamo che il delirio d’onnipotenza è sempre in agguato e rende gli uomini soli al comando fragili e quindi inaffidabili nel tempo. Ed invece serve “rilanciare la crescita”, sempre la stessa del passato, nel più breve termine possibile, e ovviamente, in barba ai differenziali di sviluppo del paese. Il tutto ovviamente nella colpevole consapevolezza che sempre meno il paradigma della crescita continua e perenne, nell’era dei robot, degli algoritmi e della intelligenza artificiale, ha ricadute vere sull’occupazione umana. Quindi imperativo è concentrare i capitali nel nord, la presenza leghista abiurando qualsiasi recente ideologia sovranista fondante, è funzionale a quello. Al sud al massimo quanto basta per allestire quel grande parco divertimenti che le bellezze naturali consentiranno dopo che improbabili infrastrutture funzionali alle imprese del nord devasteranno il territorio. Qualsiasi forma di redistribuzione economica, che sia di classe o geografica è considerata quindi superflua quando non dannosa. Draghi è stato scelto come il campione, il migliore possibile, per questa opzione. Però dato che la speranza è l’ultima a morire, resta sempre l’opzione “brecktiana” della imprevidibilità di coscienza dell’uomo alla guida, sia esso un carro armato che un governo. Certo è una speranza lieve alla quale affidarsi. Così con un M5s destinato ad essere “normalizzato” sia nell’area governista che in quella rivoluzionaria (si fa per dire), imbrigliata fra integrazione nella politica che conta e delegittimazione in una opposizione di fantasia, ci sarebbe lo spazio per una opposizione vera, contenutistica, di sinistra, ma che è già naufragata prima di prendere in mare. Da un lato Rifondazione comunista la cui voce continua a non pervenire, dall’altra Sinistra Italiana che ha sprecato le sue cartucce in congressi fantasma e dibattiti fra soliti e pochi noti. Un parlarsi addosso che sembra essere ormai la condanna alla propria ininfluenza.
Fabio Folisi