L’autonomia differenziata sta minando l’unita’ d’italia? Un passaggio obbligato per interpretare il futuro
Come è possibile che una semplice applicazione di una previsione costituzionale che nel 2001 venne proposta ed approvata dalla sinistra e dal voto popolare, con una destra che riteneva tale previsione poco federalista, venga oggi vista come una mina pronta ad esplodere ed a fra saltare l’unità dello Stato italiano?
Non entro nel merito degli aspetti tecnici della questione, dei particolari applicativi e di quelli finanziari e del complesso delle modalità di trasferimento delle materie, ma vorrei centrare la vicenda sugli aspetti politici che si stanno palesando.
Non ritengo peraltro che le posizioni emergenti dagli oppositori né quelle dei, più o meno vivaci, proponenti sia unicamente determinata da interessi elettorali e dal loro posizionamento geografico. Lo scontro è realmente politico.
Molta acqua è passata sotto i ponti dal decennio di fine secolo scorso quando il dibattito sul federalismo era un tema su cui “tutti” si confrontavano, magari anche per impedire il secessionismo dichiarato, ma mai praticato, della Lega Nord di Bossi.
Il federalismo era considerata una medicina per curare le difficoltà di uno Stato uscito a malapena da “tangentopoli” ma che esprimeva comunque una vitalità soprattutto a partire dai suoi corpi intermedi, organizzati e spontanei.
Cosa ha fatto mutare quel clima facendo oggi intravvedere la salvezza dello Stato in una ricompattazione centralizzata dei poteri? Da collocarsi fondamentalmente nel governo centrale e considerando le Regioni un demonio da esorcizzare, causa del dissesto della pubblica amministrazione e luogo di proliferazione di azioni malavitose da parte di una classe politica numerosa e costosa. Soggetti questi ultimi da disboscare per ridare spazio all’onestà ed all’efficienza.
Va osservato che il tema della centralizzazione in nome dell’efficienza riguarda tutte le nostre democrazie diffuse, compresa la organizzazione comunale, ma in qualche modo la focalizzazione da alcuni anni è indirizzata verso le Regioni, come si è potuto desumere dallo stesso referendum costituzionale bocciato il 4 dicembre 2016. Che, detto per inciso, se avesse previsto solo le modifiche al Titolo V, avrebbe ottenuto consensi da stadio.
La risposta va ricercata nella attuale incapacità dell’insieme delle istituzioni pubbliche, organizzate nello spazio dello Stato, di rispondere alle questioni di fondo economiche, sociali ed ambientali che caratterizzano questo primo quarto di secolo XXI.
Le oscillazioni degli stati nazioni e le ragioni dell’Europa
Questa inadeguatezza ha colpito in misura maggiore o minore un po’ tutte le democrazie avanzate ed è stata interpretata come non volontà dei partiti al potere di confrontarsi con le emergenze, dalle difficoltà retributivi alla mancanza di lavoro, dalla riduzione delle prestazioni dello stato sociale alle ondate di flussi migratori.
In contrapposizione alle forze politiche di governo si sono affermate esperienze oggi catalogate come “populiste sovraniste” in quanto espressione di bisogni generali diffusi a cui si ritiene di poter rispondere con percorsi di “riconquista” di poteri statali anche nella forma di poteri decisionali centralizzati in diretto rapporto con il “popolo”. Peraltro, ad imitazione o per possibilità di attingere alla propria tradizione, anche le forze politiche classiche hanno percorso in alcuni casi la stessa strada, cercando qualora presenti all’interno della UE, di esaltare le proprie visioni nazionali identitarie.
E’ accaduto con il PD Renziano in Italia, ma la cosa vale anche nel caso spagnolo, messo in angoscia dall’accelerazione catalana, ha assunto una forma patologica in Gran Bretagna con la Brexit, ed ha prodotto trasformazioni quasi contro natura in forze di popolarismo cristiano quali in Austria, Polonia e Ungheria.
Ma la cura, pur avendo in alcune situazioni potuto gestire processi di riappropriazione statale di pezzi di economia in una logica sostanzialmente “cinese” del modello di riferimento (Polonia e Ungheria), non può dare risultati decisivi ed anzi prepara situazioni di rischio economico e sociale come il caso inglese sta evidenziando, inducendo peraltro un po’ tutti ad una cautela negli estremismi anti europeisti.
In un mondo multipolare dove ormai poteri diversi, alcuni economico finanziari ed altri anche militari, stanno giocandosi egemonie regionali e globali, i neo sovranismi si trovano, ed ancor più si troveranno in breve, a dover effettuare scelte geo politiche laceranti. Già avviene in alcune situazioni limite quale la Turchia e le diverse partite balcaniche, ma è questo il destino che aspetta gli stessi stati che attualmente fanno parte della UE se non riusciranno a far emergere una comune riflessione su un futuro condiviso.
Questa riflessione però non può che basarsi sulla capacità di capire che esistono scelte politiche che vanno al di là delle attuali dimensioni statali e che vanno affidate a percorsi democratici la cui sintesi può appartenere “sovranamente” al livello europeo. Livello inteso non come un super stato ma come un luogo specifico della terra in grado di esprimersi sulla base di elementi storici, geografici ed economici di comune rilevanza.
L’UE oggi esprime una potenzialità di soggetto nel confronto globale non solo per i suoi numeri (abitanti, economia, etc.) ma in quanto spazio di sintesi di percorsi storici compiuti ed evoluti in un quadro esperienziale condiviso: democrazia, welfare, diritti civili, rispetto per le diversità, etc. La scommessa globale si vince se la voce con cui la UE si esprime sui temi fondamentali è diretta espressione di una cittadinanza europea libera dai vincoli statali che oggi la paralizzano.
Le dimensioni territoriali dell’amministrazione
Tuttavia il percorso democratico non è praticabile se non parte da dimensioni territoriali che, sulla base dei temi che in quella realtà si devono “amministrare”, possono non coincidere con le dimensioni degli attuali “stati nazione” che compongono l’UE.
Lo stato nazione ha costruito spazi geografici di sovranità che hanno in passato sostituito gli stati dinastici e che si sono basati su istanze di appartenenza di carattere sociale identitario espresso nel concetto di “nazione”. Oggi si deve prendere atto che di per sé non necessariamente tali spazi sono adeguati ad assolvere a tutte le attività di “governo” e di “amministrazione”.
Le “nazioni” esistono perché nel tempo le comunità si sono aggregate secondo tale processo identitario, ma questa appartenenza che è destinata a continuare a vivere in forme nuove, non giustifica una “sovranità territoriale”, sia pure limitata dalle tempeste globali, in grado di gestire i problemi che l’evoluzione storico-politica ed economico-ambientale del mondo propone.
Liberarsi del mantra della appartenenza ad uno stato nazione come luogo dell’articolazione della politica, senza rinnegare ed anzi esaltando il senso pieno della appartenenza nazionale (oggi talvolta anche plurima), è una operazione logica che la concretezza dimensionale delle decisioni politiche impone.
La crisi di “sovranità” dell’Italia sta tutta qui dentro, nella incomprensione della fine di una epoca storica il cui orizzonte era lo stato nazione e la sua unità. Il tema delle autonomie regionali differenziate ha portato in piena luce la necessità di leggere il futuro istituzionale secondo altre prospettive. Qualcuno interpreta la situazione attuale come una rilettura critica del percorso di unificazione statale del XIX secolo. Non è questo ma la presa d’atto che quel cammino si è concluso.
La risposta quindi non potrà essere data da una pura riforma dello Stato, ma, date le premesse indispensabili di un riferimento istituzionale di protezione europeo, essa va accompagnata da una rilettura delle dimensioni geografiche di riferimento territoriale, oggi da dettarsi sulla base di un esercizio fattivo della democrazia e dei modelli di amministrazione interni ad una Unione Europea.
Se poi tali dimensioni coincideranno, nelle diverse esperienze degli attuali stati che compongono l’UE, con le loro attuali conformazioni, o su regioni esistenti o in formazione, o addirittura, come alcuni pensano, sul ruolo fondamentale delle città, questo dovrà essere il risultato di un confronto e di valutazioni che aspettano di potersi mettere in cammino.
Giorgio Cavallo