L’esproprio di un bene comune chiamato “rave”
Da sempre le società organizzate hanno permesso, e spesso costruito, degli spazi fisici e temporali dedicati allo “sballo”. Potevano nascere da un momento estatico-religioso per diventare poi una abitudine civile che magari sfuggiva al controllo del potere dominante.
Anche le mille forme di tradizione carnevalesca originano dallo stesso filone. In Friuli addirittura il ballo davanti alla Chiesa è diventata un contenzioso tra fedeli e parroco in seguito al Concilio di Trento; e le “sagre” con danze sul “brear” hanno innescato secoli di riprovazione per la licenziosità dei movimenti.
I “rave parties” della post modernità appartengono quindi ad una riproposizione di una forma di “bene comune” immateriale che ancora una volta emerge come bisogno “popolare”, in questo caso prevalentemente giovanile, di esprimersi al di fuori di alcune regole. Che poi nella domanda di “sballo” ci sia qualcuno che se ne approfitta, economicamente o socialmente, non manca di sicuro.
La domanda di ordine dei nuovi beghini tridentini ha subito trovato eco in misure repressive del nuovo governo Meloni che nel definire il reato ha peraltro adattato la rete da pesca magari per altre occasioni. Ma di questo già molti hanno capito l’antifona. Della vicenda c’è però un aspetto che sfugge: l’occasione permette ancora una volta di trasformare un bene comune e la sua disponibilità in ulteriore servizio che viene privatizzato e messo sul mercato.
Ci sono migliaia di locali a pagamento con musica techno, beveraggi alcolici improbabili, sostanze lecite ed illecite che circolano, orari praticamente H24, pronti a fornire quanto serve per uno “sballo” nel quasi pieno rispetto della legge. Basta pagare.
Crea PIL e anche occupazione, a partire da guardie e buttafuori con occhio clinico e, “se serve”, capaci di menare. Sono lavoretti molto amati in certi ambienti, pura assonanza con le tifoserie calcistiche organizzate, e, per rimanere alla cronaca di questi giorni, che ben si adattano ai nostalgici dell’olio di ricino. Per questi motivi le norme appena emesse per reprimere i rave alla fine mi sembrano soprattutto un ampliamento di business per clientele amiche il cui controllo sociale dà sufficienti garanzie.
Certo, fa una certa impressione che qualche migliaio di sballati squattrinati diventino la questione del giorno fino a diventare “reato specifico”, mentre il “reato” degli “ a noi” di Predappio appaia nulla più che una ragazzata. L’importante è difendere il consumo di vino e insultare la canapa.
Giorgio Cavallo