L’Europa di Aquisgrana, dettano le regole quelli che contano: Francia e Germania quelli di sempre
“…Francia, Germania, Italia e Spagna hanno la responsabilità di tracciare la strada; non per imporla agli altri ma per essere una forza al servizio dell’Europa che dà impulso agli altri (…) La Difesa è un argomento scientemente evitato dai Trattati di Roma. Oggi l’Europa può invece rilanciarsi con la Difesa, per garantirsi la sicurezza, essere attiva a livello globale, cercare le soluzioni ai conflitti che la minacciano. Questa deve essere, in coerenza con l’impegno Nato, la nostra priorità…” dichiarava Hollande al vertice di Versailles del marzo 2017. Oggi sono rimasti in due: Francia e Germania, quelli di sempre, quelli che contano veramente, quelli che hanno recentemente accelerato verso un’integrazione economica, politica e militare senza precedenti.
Il 22 gennaio scorso, ad Aquisgrana, Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno superato (rilanciandolo) lo storico accordo firmato da De Gaulle e Adenauer lo stesso giorno nel lontano 1963.
Nel preambolo al nuovo trattato e nelle dichiarazioni a margine della firma dello stesso, emerge quasi ossessivamente la chiara intenzione di dissimulare con lo spirito europeista la blindatura integrata dei propri interessi nazionali. In sostanza ciò che viene ufficialmente detto è che Germania e Francia hanno “dovuto” siglare questo trattato per salvare l’Europa dai sovranismi e dai nazionalismi e per rilanciarne la moneta, il mercato unico e naturalmente i “valori”.
Il trattato di Aquisgrana è composto da 28 articoli suddivisi in 7 capitoli:
1) Affari europei; 2) Pace, sicurezza, sviluppo; 3) Cultura, istruzione e ricerca; 4) Cooperazione regionale e trans frontaliera; 5) Sviluppo sostenibile, clima e affari economici; 6) Aspetti organizzativi.
Nel primo breve capitolo viene assunto l’impegno tra i due Paesi a stabilire consultazioni regolari a tutti i livelli prima dei principali vertici europei con lo scopo di convergere sulle decisioni da prendere o sulle proposte da fare. La recente nomina del ministro della Difesa tedesco Ursula von der Leyen a capo della Commissione europea e di Christine Lagarde a capo della Bce sono stati senza dubbio un buon banco di prova per questo aspetto del trattato.
Nel secondo capitolo si dichiara che gli interessi dei due Paesi in materia di sicurezza sono “indivisibili”: verrà ulteriormente rafforzata la cooperazione tra le rispettive forze armate per permettere spiegamenti congiunti e la cooperazione tra le rispettive industrie belliche anche in funzione dell’export di sistemi d’arma sviluppati in comune.
In questa direzione verranno sviluppati programmi di difesa comuni prevedendo una loro estensione ad eventuali altri partner (come, ad esempio, il progetto per un nuovo caccia di sesta generazione a cui la Spagna ha già chiesto di aderire).
Verrà costituita una unità militare congiunta da utilizzare per operazioni di “stabilizzazione” in Paesi terzi.
In particolare nel continente africano dove Francia e Germania intendono costruire una “sempre più stretta collaborazione” rafforzando la “cooperazione” nel settore privato, nell’integrazione regionale, nel “buon governo” e gestendo la prevenzione dei conflitti, il peacekeeping e le situazioni post-conflitto.
Verrà quindi istituito un Consiglio di Difesa e Sicurezza franco-tedesco quale organo di direzione congiunta rispetto agli impegni presi e che si riunirà regolarmente ai massimi livelli.
Sarà inoltre costruita una stretta collaborazione tra i rispettivi ministeri degli Esteri e le rappresentanze diplomatiche comprese quelle presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite per il quale viene avanzata una esplicita richiesta di riforma affinché si possa attribuire alla Germania un seggio permanente alla stregua di Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito e Francia. Quest’ultimo punto in particolare è considerato “prioritario” per la diplomazia franco-tedesca.
Nel terzo capitolo viene premuto l’acceleratore sulla integrazione dei sistemi educativi, degli istituti culturali, dei media, della ricerca attraverso la promozione dello studio delle due lingue, del reciproco riconoscimento delle qualifiche, dello sviluppo di specifici programmi di interscambio e piattaforme digitali.
Nel quarto capitolo viene affrontato il tema delle zone trans frontaliere dove i due Paesi intendono sostenere le rispettive minoranze linguistiche (specialmente quella tedesca), il bilinguismo e la cooperazione attraverso progetti trans frontalieri legati a mobilità, salute, energia, economia col preciso intento di mantenere “alti gli standard nei campi della legislazione del lavoro, sicurezza sociale e protezione ambientale”.
Per realizzare questi obiettivi si punterà sullo sviluppo delle autonomie locali riunite in “eurodistretti” che verranno dotati di specifiche competenze e risorse finanziarie.
Nel quinto capitolo, dopo una breve dichiarazione d’intenti rispetto alla promozione e sostegno degli accordi globali sul cambiamento climatico, Francia e Germania dichiarano la ferma intenzione di inserire questo aspetto in ogni settore chiave della loro cooperazione.
Si parla espressamente di “transizione energetica” attraverso progetti congiunti nel campo delle infrastrutture, delle energie rinnovabili e più in generale della efficienza energetica.
Viene istituito un Consiglio di Economia e Finanze franco-tedesco per promuovere l’”armonizzazione bilaterale” a livello normativo e la competitività delle rispettive economie.
In questo quadro, oltre ad un alto organo consultivo composto da dieci esperti di economia “indipendenti”, verrà istituito un Forum franco-tedesco per coinvolgere i così detti “portatori d’interesse” e gli “attori rilevanti” nei processi di trasformazione delle due società.
Nel sesto capitolo viene stabilito che gli incontri tra i governi dei due Paesi dovranno tenersi almeno una volta ogni tre mesi. Il nascituro Consiglio dei ministri franco-tedesco adotterà una agenda pluriennale di progetti la cui implementazione sarà monitorata da appositi “Commissari per la Cooperazione franco-tedesca”.
Almeno una volta ogni tre mesi, a rotazione, un rappresentante del governo di uno dei due Paesi assisterà al Consiglio dei ministri dell’altro Paese.
I Consigli, le strutture e gli strumenti della cooperazione franco-tedesca verranno sottoposti a verifiche periodiche e ad eventuali aggiustamenti.
C’è quasi tutto in questo trattato tranne ovviamente ciò di cui si è discusso a “porte chiuse” e tutti quelli che sono i “non detti” impliciti. E non è poco.
Ripulendo infatti questa operazione dai riferimenti al potenziamento della “cooperazione europea”, al multilateralismo, alla stessa integrazione nella Nato, quello che appare evidente è che questo trattato (più gli annessi “non detti”) sancisce un passaggio epocale nella collocazione geopolitica dei due Paesi coinvolti, non a caso dopo la Brexit.
Rispetto agli Stati uniti il messaggio è piuttosto chiaro: stiamo nella Nato ma intendiamo sviluppare autonome capacità militari sia tecnologiche che di proiezione oltre confine e non siamo più disposti ad accettare l’unilateralismo degli interessi strategici statunitensi.
“La politica degli anni ’80 non aiuterà a far fronte alle questioni di oggi” ha dichiarato lo scorso dicembre Il capo della diplomazia tedesca Heiko Maas per sostenere l’indisponibilità della Germania a schierare sul proprio territorio i missili nucleari statunitensi a medio e corto raggio. Più in generale lo stesso Maas si è dichiarato contrario al dispiegamento di tali missili in Europa dopo l’annunciato ritiro unilaterale degli Stati Uniti dal Trattato (INF).
La Germania si sta quindi delicatamente defilando dalla “protezione” nucleare a stelle e strisce ed è quasi ovvio che il nuovo ombrello, dopo Aquisgrana, sarà la Force de Frappe francese magari con future integrazioni, collaborazioni e sostegni finanziari da parte tedesca.
Dal punto di vista militare la Germania non porta con sé una grande dote di operatività ma di sicuro una certa “buona volontà” dimostrata dalla recente integrazione nella Bundeswehr di due brigate olandesi, una ceca e una romena, da un bilancio della difesa in crescita, dall’addestramento al bombardamento nucleare nel quadro NATO, da una industria bellica di tutto rispetto, dalla presenza in Mali di proprie truppe e mezzi.
Da parte sua la Francia, oltre alla Bomba, alla sua straripante industria “della difesa” e al potere di veto all’Onu, dispone di basi, avamposti e pezzi di “territorio nazionale” in diversi continenti ed oceani con conseguenti spiccate capacità di proiezione della forza militare.
Macron ha ereditato da Hollande il rilancio del protagonismo francese nel continente africano. Parigi intende infatti consolidare la presenza militare in Africa dalla Costa Atlantica fino all’Oceano Indiano, dal Senegal a Gibuti, passando per il Sahel e quindi ricongiungersi con altre basi e avamposti già presenti nei due oceani.
Questa visione strategica espansionista, aggressiva e molto ambiziosa richiede un concorso negli “oneri per la sicurezza” che la Germania offre già da anni.
La capacità di proiezione globale (condivisa come piattaforma con gli alleati) offre all’industria bellica francese prospettive senza fine.
Il ruolo di capofila richiede però alla Francia (e a tutti i francesi) un forte aumento della spesa militare: con la nuova Legge di Programmazione Militare ( LPM 2019-2025), Macron ha stanziato la somma di 295 miliardi di euro, ben 105 miliardi in più rispetto al quinquennio precedente.
L’8 febbraio dello scorso anno, nel presentare la LPM il ministro della difesa Parly ha giustificato questo forte aumento definendolo “…necessario per mantenere l’influenza globale della Francia ed intervenire in ogni luogo del globo in cui vengano minacciati gli interessi della Nazione e la stabilità internazionale…”.
Il piano ha l’ambizione di garantire “l’autonomia strategica” nazionale ed “europea”. Oltre alle nuove acquisizioni (sommergibili nucleari, fregate, droni, satelliti, aerei ed elicotteri) la LPM prevede un corposo aumento del personale: 6.000 unità per le forze armate di cui 1.500 per i servizi segreti e 1.000 operatori per la cybersicurezza più 750 funzionari da impiegare nella “divisione vendite” nella Direction Générale de l’Armement.
In Francia infatti è lo stesso governo ad occuparsi dell’export dei prodotti dell’industria bellica nazionale, dalle pistole ai caccia…
Anche se dal punto di vista militare il matrimonio di Aquisgrana appare del tutto sbilanciato non dimentichiamoci che la Germania porta con sé il treno economico delle sue esportazioni (specialmente verso i mercati russo e cinese), enormi capacità finanziarie, il controllo esclusivo del flusso di gas russo che soddisfa attualmente quasi un terzo della domanda europea attraverso i gasdotti del Baltico.
Il banchetto nuziale è decisamente ricco se aggiungiamo a tutto ciò la partita del così detto Franco africano CFA, oggi convertito in euro, ma la cui finanza generata/estorta passa attraverso le banche francesi.
Rispetto all’Europa il messaggio è altrettanto chiaro: o con noi o con gli Stati uniti. Appare chiaro che con Aquisgrana è stato formalizzato, nero su bianco, un fatto storicamente assodato: Francia e Germania sono l’Europa. Il resto sono Paesi satellite che potranno decidere se aggregarsi alla cordata in via esclusiva o giocando su due staffe con la sponda statunitense (Paesi di Visegrad e Italia…).
Parliamo di Paesi, di Stati perché sono ancora questi la realtà materiale delle relazioni internazionali. E poco conta se dagli anni novanta si sia astrattamente creduto ad una presunta “fine degli Stati” a fronte dei fenomeni di globalizzazione e finanziarizzazione. Nella grande maggioranza dei casi, gli Stati stanno semplicemente dismettendo la loro funzione regolatrice per concentrarsi sulla funzione repressiva interna e di proiezione militare verso l’esterno in piena sintonia con la natura stessa del capitalismo storicamente inteso.
Lo schema neocoloniale, in sintesi, rappresenta la versione aggiornata e perfezionata del colonialismo e dell’imperialismo novecenteschi: multinazionali di bandiera e grandi banche > ricerca scientifica e tecnologica > professionalizzazione delle forze armate > controllo dei mercati, della forza lavoro e delle materie prime.
Si è di fatto passati a piè pari dalla “civilizzazione” della Belle epoque alla “democratizzazione” post ’89 e la Francia, in questo senso, è stata grande maestra.
Tutto ciò appare come un vicolo cieco, in un mondo multipolare “controllato” da superpotenze, medie potenze, piccole potenze sulla pelle della maggior parte degli esseri umani e dello stesso pianeta che ci ospita.
Eppure le variabili in gioco sono molteplici a cominciare dalla stessa composizione del capitalismo che non è un monolite ma è attraversato spesso da interessi divergenti anche all’interno dei singoli “sistemi-Paese”.
Se si parla di “Europa” ma soprattutto di un’altra Europa risulta allora necessario uscire dal provincialismo per entrare nel merito di queste relazioni materiali, facendo i conti con le interdipendenze globali per cominciare ad occuparsi seriamente di politica estera.
Risulta necessario abbandonare sia l’europeismo senza sostanza (perché gli Stati, come abbiamo visto, esistono eccome!) che l’unilateralismo delle uscite in solitaria da questa Europa perché da soli ci si schianta comunque o peggio, si diventa definitivamente una carcassa da fare a pezzi.
L’unico spazio politico europeo dove sarebbe possibile ed opportuno prendere reale coscienza dello stato di fatto ed elaborare un nuovo spirito costituente su basi alternative, condivise, concrete, è il gruppo della Sinistra Europea (GUE/NGL).
Per quanto contraddittorio e ridimensionato dalle recenti elezioni europee, risulta essere l’unico raggruppamento che si è sempre opposto al liberismo costituente della Unione Europea, del Fondo monetario internazionale e della stessa Bce.
Ma rivendicare una Europa sociale, oggi, non può più bastare. Il dibattito sul “che fare” dovrebbe ripartire da Aquisgrana, dalle nuove vecchie faglie di scontro globale e dalla chiara intenzione dei governi francese e tedesco di fare, in questo contesto, da capofila di un rinnovato assetto belligerante e neocoloniale continentale.
Uscire dalla NATO e dalla melma del neocolonialismo di marca “europea” è una prospettiva incredibilmente tortuosa ma che dovrebbe essere posta come base comune per qualsiasi futuro condiviso e condivisibile di una qualsiasi “altra” Europa.
Un futuro che ci consenta di imboccare una direzione opposta a quella oggi in campo: la strada del disarmo progressivo, della cooperazione, della mutualità nell’interdipendenza, della stabilità, della conversione energetica e produttiva.
Un tale futuro può essere immaginato e costruito soltanto da chi parla la stessa lingua: quella della giustizia sociale, della pace e solidarietà tra i popoli.
Gregorio Piccin