Opinioni: Il declino di un Friuli senza leader. Per ora accontentiamoci di Agrusti e Saro

 

E’ vero. Come dice M. Pertoldi sul Messagero Veneto del 30 giugno scorso, uno degli organismi vitali del Friuli, la realtà udinese, è in stato catatonico. Non solo non è più in grado di proporsi come guida del Friuli ma non è più nemmeno capace di pensare ad un proprio ruolo strategico ed esprimere un minimo di classe dirigente consapevole di qualcosa da svolgere, negli spazi sociali, economici, politici e culturali, in questo ormai avanzato spezzone di XXI secolo.
Curiosamente però, nell’elenco delle cose che non vanno, Pertoldi dimentica due segnali fondamentali di cui ritengo peraltro sia ben consapevole: le prestazioni dell’Udinese e la soporifera funzione dell’informazione. Lasciamo pur perdere le delusioni calcistiche dove per converso c’è anche una Pordenone che esulta. Ma colpisce un sistema editoriale quotidiano monopolizzato e un media pubblico dedito alle banalità ripetute e geograficamente squilibrate.
Per quanto riguarda il giornale di riferimento per l’area udinese non mi riferisco solo ad un asservimento tematico alla necessità di sopravvivere in un quadro dove la proprietà editoriale confligge con le dominanze politiche, anzi l’equilibrio raggiunto mi pare apprezzabile, ma proprio alla assenza di una prospettiva di visione e di scenario possibile per il Friuli di domani.
M. Pertoldi colpisce un punto dolente e addita il re nudo. Ma i fasti ed i patti politici del 1964 sono ormai storia e, malgrado l’appello di Saro ad una nuova unità responsabile tra politici e categorie economiche, non si vede alcuna luce in fondo al tunnel. E per di più si continua a pensare Udine e le sue pertinenze come l’esaustiva identità del Friuli continuando a perpetuare i danni di una funzione auto referenziale continuamente evocata e gravida di danni per il concetto stesso di Friuli.
Il Friuli nella sua interezza, comprensiva di Udine, Pordenone e Gorizia, sta ridiventando una frontiera in un mondo agitato da conflitti di supremazia per il controllo dei flussi economici e produttivi. Si tratta di un Friuli il cui tessuto industriale è tutto rivolto all’esportazione, con 15 miliardi di euro corrispondenti ad oltre il 40% di PIL che se ne va all’estero a fronte di 7 miliardi di euro di importazioni, e sempre più privo di ammortizzatori rispetto ai cicli che l’economia universale sempre più frequentemente attraversa. Magari una riflessione su questo sistema produttivo, non di pura esaltazione di 4.0, andrebbe fatta.
Ed è un Friuli in cui le nuove percezioni di “frontiera” stanno diventando anche una partita geo politica che non riguarda solo i traffici del porto di Trieste e le loro ipotetiche conseguenze strategico militari, ma l’evidenziarsi di una nuova linea di faglia dell’Europa che da Stettino-Danzica arriva a Trieste-Fiume.
La Regione F-VG vede la sua prima preoccupazione politica nella infiltrazione di migranti, terroristi e trafficanti di uomini e droga, senza riflettere che la sua più importante industria, leader mondiale delle costruzioni navali, e di fatto simbolo portante della unità produttiva regionale sull’asse Bono-Agrusti e Trieste-Pordenone, vive sul lavoro “semi schiavizzato” di circa 10.000 componenti di un esercito di riserva proveniente dal Bangladesh.
Trieste ha nell’ultimo decennio espresso alcuni leader manager, in pratica l’autorità portuale D’Agostino, capace di rivitalizzare ciò che sembrava morto e sepolto, compreso il trattato di pace, ed ha trovato politici in grado di accompagnarlo, ma anche resistenze occulte ancora vive. Il dibattito sulla città c’è e si riflette non in maniera scontata per le utilità che potranno derivarne per l’intera Regione. Su questo, e sul quadro internazionale che ne fa da contorno, mi pare che l’informazione circolante in quella città sia ben più consapevole di quanto circola in Friuli.
La partita a Trieste riguarda la prevalenza di un futuro industriale-portuale piuttosto che turistico-immobiliare, con tutto ciò che significa in termini di dimensione e qualità dell’occupazione, non solo degli affari. E con il consenso di tutti diventa verità pubblica l’attribuzione alle sue istituzioni dedicate una specie di dominio-patronage sul rapporto tra scienza ricerca e innovazione anche al di là di meriti reali, e approfittando di soldi pubblici fino a far diventare una specie di olimpiade un interessante ma normalissimo convegno estivo, per scienziati e consorti, quale ESOF 2020.
E’ vero, a Udine tutti piangono un Friuli perduto e nessuno appare capace di governare relazioni corrette con i territori che compongono la Regione e dentro ad essa con un Friuli plurale, anche linguisticamente, che esiste e vive ben oltre il dibattito, spesso inutile, sulle scelte della Giunta Fontanini.
C’è un elemento generale che pesa come un macigno su tutta la realtà friulana: la sistematica distruzione dei corpi intermedi, di ogni tipo, di rappresentanza di categoria, associativa, anche di aggregazione religiosa, sostituiti da una politica che ha come asse principale il rapporto tra “popolo” e leader.
Le due leggi omnibus approvate dal Consiglio regionale nel corso del 2019, altro non sono, a parte alcune necessarie attualizzazioni interpretative quasi mai peraltro di semplificazione, se non l’attivazione di fili diretti tra interessi spezzettati, talvolta addirittura individuali, rivolti a saldare forme di clientela rispetto alla politica (Giunta o consiglieri) e capaci anche di introdurre senza tentennamenti disposizioni legislative tecnicamente mostruose, come nel caso edilizio urbanistico.
Non esistono filtri di discussione e approfondimento, si prende quello che si può, le associazioni di categoria e di rappresentanza sociale diventano puro accompagnamento alla gestione delle pratiche amministrative, e qualunque voce disturbi i “padroni del popolo” viene rintuzzata con sbruffonerie come nel caso delle questioni ambientali o del cambiamento climatico.
Il problema oggi quindi non è quello di recuperare nel mercato attuale politici e manager di qualità ed esperienza. I Saro e gli Agrusti continueranno a prevalere, e tutto sommato sono il meno peggio. Ma c’è un bisogno assoluto di ricostruire relazioni sociali e capacità diffuse di conoscenza in tutti gli angoli del Friuli al fine di imporre una diversa gerarchia di priorità rispetto alle questioni sul tappeto. Per rispondere a reali interessi diffusi e non quale conseguenza dell’urlo del più astuto tra i venditori.

Giorgio Cavallo