“Signori” abbiamo un problema: ancora una donna uccisa, a Codroipo, con il solito copione “familiare”

Codroipo, uccide la moglie a coltellate nella notte poi scappa, il copione è sempre lo stesso le donne continuano a morire sotto i colpi di uomini che non le vogliono lasciare, o che non vogliono perdere il “controllo” su di loro. La vittima è Elisabetta Molaro 40 anni ed è stata uccisa a coltellate nella notte dal marito, Paolo Castellani, 44 anni.  Il fatto è avvenuto nella  notte in una villetta. L’uomo avrebbe chiamato il 118 e poi è scappato per essere fermato alcune ore dopo dai carabinieri in una zona di campagna, nei pressi di villa Manin. Nell’abitazione dove è avvenuto il femminicidio c’erano anche i figli della coppia, che stavano dormendo. Fin qui la notizia nella sua sinteticità, mentre il racconto della dinamica di quanto accaduto in quella villetta  è per noi  poco importante e lo lasciamo ai colleghi delle testate che su questo fondano la propria linea editoriale, confidando nella morbosità dei lettori per vendere qualche copia in più. Vogliamo invece dire che questa, come le centinaia di uccisioni di donne per mano di chi aveva loro giurato amore eterno, è una scia di sangue che non tende a diminuire, anzi. Ed è su questo che bisognerebbe concentrare gli sforzi, non sul numero delle coltellate. Solo interrogandosi fino in fondo (e lo affermo da maschio)  si potrebbe squarciare quel velo di ipocrisia che nasconde e non vede, che il fenomeno della violenza domestica e della concezione patriarcale della famiglia è alla base dei cosiddetti “femminicidi”, termine fra l’altro davvero brutto che vorrebbe identificare l’uccisione di una donna e che vorrebbe praticamente targhettizzare, omologandolo, un fenomeno che è in crescita parallelamente alla consapevolezza delle donne di essere, giustamente, padrone della propria esistenza. Quello del “femminicidio” è un termine relativamente nuovo, entrato a far parte del vocabolario italiano da una ventina d’anni, ma non così recente è il fenomeno degli assassini delle donne, il problema semmai è che oggi, ancora, si raccontano i fatti normalizzando i gesti degli assassini. Perché, sotto sotto, l’idea che l’esistenza delle donne valga meno di quella dei maschi non è affatto tramontata e si infila ovunque nella società del terzo millennio: giustizia, giornali e tv comprese. Paginate di quotidiani,  rotocalchi e trasmissioni televisive che morbosamente vanno alla ricerca del particolare più raccapricciante e magari strappalacrime, perché fa vendere copie o alza l’audience, anche questa  è una questione su cui molto ci si dovrebbe interrogare. Quando un “fenomeno” diventa oggetto di statistica, un numero che si aggiunge all’altro, vuol dire che si è perso il senso della realtà. Vale per gli infortuni sul lavoro, considerati inevitabile effetto collaterale del profitto, vale per l’uccisione delle donne, considerata effetto collaterale al sistema famiglia patriarcale che tanto ancora piace nell’Italia del terzo millennio. Allora ci sono dei passi seri da fare, ci sono delle responsabilità a cui nessuno può sottrarsi. “uomini perbene” compresi, partendo dalla consapevolezza che ciò che gli assassini hanno voluto sopprimere era l’essere donna, con tutto il suo bagaglio di originalità, nessuna giustificazione quindi: la parola “femminicidio” non indica il sesso della morta, indica il motivo per cui è stata uccisa. Ed in effetti il punto è davvero questo, non è più tollerabile che lo si dimentichi e non ci si assuma tutta la sua portata, a partire dalla legge, che tutto sommato accetta, più o meno palesemente, che il mondo è del maschio. Del resto un paese che solo da 40 anni si è liberato giuridicamente dalle attenuanti per delitto d’onore non può non far fatica a eliminarne il tarlo. Poco importa quello che una donna vive, sente, desidera. Poco importa la qualità della sua vita, la sua dignità, perfino il suo corpo. Il suo consenso non conta o comunque conta meno. La donna in quanto tale è costantemente in libertà condizionata fin da bambina. Tutto sommato, per la cultura maschilista tutto quello che un uomo fa per riportare una donna al “posto che le compete” va bene, è giusto perché la donna è fragile e va difesa soprattutto da se stessa. Esagerazione, forse, ma di certo per molti, cresciuti in cattolicissime famiglie dove l’indissolubilità del matrimonio era necessario complemento di stabilità e sicurezza a tutti i costi, come il pane sulla tavola, resta ancora oggi inconcepibile perderne il controllo. L’idea della donna,  come angelo del focolare, resta più o meno sbiadita sullo sfondo del pensiero maschile,  linea guida familiare anche se la donna magari lavora anche all’esterno della famiglia, perchè alcune incombenze sono loro appannaggio. Ma che non chieda di più: magari uccidere no – quello si condanna – ma solo perché è un eccesso, non perché sia sbagliato il sistema oppressivo in sé. Questo è quanto ancora ci arriva – condito spesso da disgustoso voyerismo – dalle penne,  tastiere e dai microfoni di tante redazioni che trovano più comodo e remunerativo per l’editore, accettare l’omologazione del fenomeno come ineluttabile e, anziché approfondire, si limitano alla ricerca della scintilla che ha fatto scattare il “raptus”. Raptus parola che diventa la foglia di fico dietro alla quale nascondere l’azione omicida e la rassicurante giustificazione della stessa,  da condannare certo, ma che comunque è stata sempre provocata dall’azione “fuori dal coro” della donna. Imperativo è quindi  cercare il casus belli che ha provocato il raptus, identificandolo nel modo in cui vestiva, si truccava o semplicemente perché si “prendeva” spazi di libertà individuale. Per non parlare poi se la moglie avesse deciso di chiedere  la separazione.  Come se tutto questo o tanti altri futili motivi, potesse essere giustificazione per quello che è appunto considerato un eccesso, perché se ci si limita all’azione violenta verbale o a qualche sganassone, il tutto sarebbe accettabile. Una concezione che è ancora presente, non dobbiamo nasconderlo, nella cultura patriarcale, sessista e violenta che abita nelle sfere private e perfino in quelle pubbliche di un mondo maschile che fatica a lasciare al passato certe concezioni e fa da brodo di coltura alle manifestazioni estreme e che le rende “ovvie”. Motivo  anche per cui, l’indignazione dell’opinione pubblica, quando c’è, fatica a tradursi in coscienza collettiva, in azioni condivise, in cambiamenti strutturali. Le donne così ne fanno le spese, certo; possono adeguarsi; possono anche esserne complici, andando contro sé stesse, ma oggi il problema si presenta drammaticamente in tutta la sua crudeltà. Sono gli uomini innanzitutto che devono assumerla la questione, ma anche la politica, la giustizia, la religione e perfino la sanità. Tutti mondi prevalentemente a trazione e cultura maschile, grazie all’eredità culturale ricevuta. In questo senso nessun maschio può sentirsi a posto e pensare che la cosa non lo riguardi e che magari si è paladini dell’universo femminile accettando che “l’assessore” diventi assessora e il sindaco “sindaca”, perchè deve essere chiaro, la violenza contro le donne e il sistema che la sostiene non sono una “questione femminile”, anzi esattamente il contrario.

Fabio Folisi