Udite, udite… In Friuli gli operai muoiono per distrazione e forse per far dispetto ai padroni

La realtà supera l’immaginazione di chi si dice convinto che la scienza e la tecnica riusciranno a redimerci dagli errori del passato e a indicarci una via d’uscita; intanto la disinformazione, il soggettivismo e l’individualismo prevalgono sui valori e sugli ideali. Quella di tirare il sasso e nascondere la mano è uno sport assai in voga
da queste parti. Ma c’è anche chi per voler essere più realista del re, lecca la mano dei padroni del vapore con tale passione e servilismo da superare ogni immaginazione o, per dirla alla maniera dei Triestini, a tal punto da cagar fora del bucal . Ebbene, il nostro prode si era guadagnato i galloni con un roboante articolo a sostegno dell’elettrodotto aereo che oggi deturpa il paesaggio del Friuli. L’articolo era apparso nelle pagine locali del Sole 24 ore e non a caso aveva nascosto la possibilità di interrare la linea e di porla lungo il percorso autostradale, cioè come si fa nei Paesi civili, o solo nelle Regioni con un tasso di dignità appena più elevato del nostro. Un articolo cascato a fagiolo proprio nel momento in cui la Danieli esercitava la paradossale minaccia di spostarsi in Serbia nel caso in cui l’elettrodotto non fosse
realizzato in aereo.
Come intuibile conseguenza, il giorno in cui la Danieli ha deciso di acquistare alcune testate giornalistiche regionali, il nostro prode è stato nominato direttore de Il Friuli, settimanale che da allora ha fatto il paio con l’emittente Telefriuli. Naturalmente, una volta salito in cattedra, il nostro si è ben guardato dal fare ammenda e raccontare la verità: cioè che, non solo il vicino Veneto aveva imposto l’interramento degli elettrodotti, ma che la stessa acciaieria della Danieli sarebbe stata servita da un nuovo elettrodotto ad alta tensione realizzato con il tanto deprecato interramento.
Ebbene, noi che non le abbiamo mai mandate a dire, abbiamo trovato abbastanza anomalo che una società di straordinaria importanza e capacità imprenditoriale avesse avuto bisogno di entrare nell’editoria minore, quasi avesse avuto la necessità di condizionare l’opinione pubblica di questa povera Regione o almeno di tenere in vita qualche pollaio per conto terzi. Noi, che anche nel momento della più acuta contrapposizione sul fronte dell’elettrodotto, abbiamo sempre manifestato all’AD Benedetti tutta la nostra stima, non solo per la sua genialità e indiscussa tenacia, ma anche per il bene che ha saputo fare al Friuli, ebbene noi certi apparentamenti con la politica non li abbiamo proprio capiti. Apparentamenti che a partire dal sostegno al referendum costituzionale di Renzi ci sono sembrati decisamente fuori luogo, ancorché impopolari e riteniamo improduttivi: tanto da farci temere che fossero stati imposti da qualche potentato per non compromettere le sorti dell’azienda. Ed è stata proprio nel corso di una delle sue uscite pubbliche che abbiamo avvicinato Benedetti per sollecitarlo, tra l’altro, a far sì che a capo della Confindustria vi fossero personalità più significative e meno legate al carrozzone della politica; naturale quindi la nostra soddisfazione per l’arrivo di Anna Mareschi Danieli, con la sua carica umana e il suo
indiscusso livello culturale.
Ciò non toglie la nostra avversione alle testate giornalistiche padronali che il più delle volte finiscono per avere finalità diverse dall’informazione indipendente. E ciò non certo perché all’indomani del passaggio di proprietà siamo stati messi al bando, bensì perché non ne avvertiamo l’utilità pubblica, tanto più in una Regione fatta di pecore abituate a mangiare ogni sorta di fieno le venga propinato e tanto più con una classe politica avvezza ad allinearsi ancor prima di essere messa in riga.
A maggior ragione allorquando i giornali vengono diffusi gratuitamente, cioè a prescindere da quella briciola di consenso e di apprezzamento che le rende meritevoli di essere acquistati. Il risultato? L’inevitabile perdita di qualità e la crescita di una comunicazione autoreferenziale tutta tesa a lisciare il pelo della proprietà.
Con tali presupposti il nostro solerte direttore non ha esitato a dimostrarsi più realista del re e a dotarsi di un gruppetto di editorialisti per dare l’illusione di una sorta di dibattito a più voci e quindi a nobilitare la autorevolezza dei suoi indirizzi. Emblematico in tal senso è stato il suo fondo editoriale dedicato agli infortuni sul lavoro, o meglio a scagionare i datori di lavoro a fronte di un numero sempre più crescente di morti bianche: tanto più deprecabile se commisurato alla perdurante crisi
economica e quindi alla diminuita attività industriale. Ebbene il nostro, certo di acquisire meriti nel padronato più retrivo, non ha esitato ha dare la colpa ai morti! Cioè ad accreditare l’idea che la causa delle morti bianche non sia dovuta al precariato, al sub appalto, alle diminuite garanzie, al mutato clima dei luoghi di lavoro dovuto alle norme renziane, bensì al fatto che “nella maggioranza dei casi è il fattore umano a essere determinante. Una distrazione, una dimenticanza, una superficialità sono
la causa a monte di infortuni a se stessi e agli altri. Ogni lavoratore è il primo responsabile della propria sicurezza” Come dire che questi irresponsabili fanno di tutto per morire e forse al solo scopo di nuocere al loro datore di lavoro… Ecco allora tornarmi alla mente mio padre muratore che rischiava la vita sulle impalcature o mio cugino che, persa una falange in una industria metalmeccanica, si è visto minacciato dal datore di lavoro a non esibire l’infortunio pena il licenziamento.
E siccome sono certo che ad ispirare il nostro direttore non è stato Giancarlo Benedetti, mi viene da dire che ci vuole del coraggio a professare simili indegnità, un coraggio che è perlomeno pari a quello dei sindacalisti che non gli hanno manifestato la loro indignazione.
Viviamo momenti bui che avrebbero bisogno di coraggio e di virtù civili, non certo di pifferai magici, né tanto meno di un mondo virtuale che ha il sopravvento sui sentimenti, sulla politica e quindi sulla democrazia stessa, arrivando al punto di giustificare scenari autoritari e di spingere la gente in uno stato confusionale, che la induce a sovrapporre il mondo virtuale a quello reale sino a credere di poter fare ciò che è solo virtualmente possibile. Con la presa d’atto che le risorse del pianeta non
sono infinite e che il rischio di una fine tragica per l’umanità è alle porte, si fa sempre più pressante l’esigenza della verità e di un nuovo umanesimo, perché nel momento in cui mancherà l’acqua non ci sarà santo che tenga e marchingegno tecnologico capace di evitare la sopraffazione dei più deboli e una guerra senza fine per il controllo delle ultime risorse disponibili.
Oggi più che mai l’andazzo a cui assistiamo ci deve interrogare sul prossimo futuro che si prospetta per milioni di persone, che potranno sì avere una occupazione, ma questa potrà non bastare a garantire condizioni di lavoro sicure e un reddito sufficiente a campare una famiglia. Un futuro che a dirla con il vecchio Marx non può prescindere dal fatto che il mutare della struttura produttiva e dei rapporti produttivi è molto più condizionante e veloce rispetto alle modificazioni a cui va
incontro la struttura sociale, cioè al modo di relazionarsi, di legiferare, di pensare, di fare politica, di aggiornare o a seconda dei casi svalutare i rapporti sociali. Ebbene oggi più che mai tale divario appare incolmabile, senza contare che la perdita dei valori e la incapacità di indirizzare il futuro si sono fatte angoscianti.
Di automazione e di disoccupazione tecnologica si discute dagli inizi della rivoluzione industriale, benché il dibattito si sia fatto più acceso negli ultimi quaranta, cinquant’anni, cioè a partire dalla comparsa dei primi elaboratori elettronici ad elevata affidabilità. Tuttavia, solo di recente non si parla più di una semplice sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine, ma di implementare le prestazioni dell’uomo tramite l’innovazione tecnologica e l’intelligenza artificiale, dove il robot, da
protagonista, rimane solo una delle possibili forme di prestazione. Rimane comunque il fatto che solo le grandi aziende sono disponibili ad avviare processi di riqualificazione dei dipendenti, mentre le piccole e medie, per essere prive di risorse adeguate, riducono il costo del lavoro licenziando, delocalizzando, comprimendo i salari e le condizioni di lavoro. Senza contare quelle che esternalizzano le loro attività ricorrendo a società cooperative di produzione e lavoro e ai subappalti.
Se da una parte l’estrema flessibilità e la incondizionata disponibilità della forza lavoro ha permesso di comprimere i costi, dall’altra è andata a detrimento dell’innovazione, dell’automazione e della sicurezza sul posto di lavoro. Con ciò si è andata accentuando la presenza di società fantasma d’intermediazione e di cooperative spurie, ma soprattutto ha preso piede una diffusa situazione di sfruttamento e di illegalità con condizioni di lavoro e sicurezza inumane, indegne di un paese civile, che
sono proliferate a danno delle fasce sociali più deboli e dei lavoratori immigrati, creando oltretutto un terreno fertile alla infiltrazione della criminalità organizzata. Tutto ciò nella indifferenza generale e non senza la complice collaborazione di qualche tengo famiglia della carta stampata che ha potuto accreditare l’idea che sul posto di lavoro si muore per distrazione.
Tibaldi Aldevis