Uomini che uccidono le donne, nuovo “caso” a San Stino di Livenza. “Signori maschi” continuiamo ad avere un problema
“Signori” abbiamo un problema: ancora una donna uccisa con il solito copione “familiare”. Lo scrivevamo il 15 giugno scorso riferendoci all’omicidio di Elisabetta Molaro 40 anni, trucidata a coltellate nella notte dal marito, Paolo Castellani, nella loro casa di Codroipo. Oggi un nuovo caso scuote le coscienze maschili o almeno dovrebbe farlo. Purtroppo i maschi italiani dimostrano, ancora una volta, che c’è un problema serissimo che va oltre i singoli episodi e che racconta di violenze e sopraffazioni di cui cosiddetti “femminicidi” sono solo la punta dell’iceberg e che, trasversalmente, riguarda ogni ceto sociale, ogni livello d’istruzione e ogni area geografica. Del resto i numeri sono impietosi, fino a ieri in questo 2022 in Italia vi sono state 53 donne vittime della furia omicida di mariti, fidanzati, amanti o ex. Oggi, aggiungiamo la 54esima vita strappata. Si tratta Cinzia Luison, 60 anni, parrucchiera. A stroncarne la vita a San Stino di Livenza è stato il marito, che oggi intorno a mezzogiorno, ha ripetutamente colpito la donna uccidendola a bottigliate. L’omicida, reo confesso, è Walter Pitteri, 65 anni, originario di Mestre, ex dipendente di Actv che dopo aver ucciso la moglie, ha chiamato il 112 per raccontare quanto aveva appena compiuto. I carabinieri, accorsi nell’appartamento, hanno preso in consegna l’uomo che è stato portato in caserma dove è stato interrogato e nel corso del pomeriggio il pubblico ministero di turno della Procura di Pordenone ne ha disposto l’arresto per omicidio volontario. Dalla prima ricostruzione dei fatti l’uomo avrebbe anche cercato di uccidere una delle due figlie ventenni della coppia. La casa dove è avvenuto l’orribile fatto di sangue è stata delimitata dagli inquirenti come scena del crimine per provvedere ad una puntuale ricostruzione dei fatti. Fin qui quanto ci racconta crudelmente l’ennesima cronaca che non ci piace raccontare e che riportiamo per dovere professionale. Anche in questo caso lasciamo i particolari truculenti ai colleghi delle testate che su questo fondano la propria linea editoriale, confidando nella morbosità dei lettori per vendere qualche copia in più o nel caso delle Tv per un punto di share in più. Ancora oggi si raccontano i fatti normalizzando i gesti degli assassini come fossero copioni di film “splatter”, perché, sotto sotto, l’idea che l’esistenza delle donne valga meno di quella dei maschi non è affatto tramontata e si infila ovunque nella società del terzo millennio: giustizia, giornali e tv comprese. Questo è quanto ancora ci arriva – condito spesso da disgustoso voyerismo – dalle penne, tastiere e dai microfoni e telecamere di tante redazioni (non tutte ovviamente) che trovano più comodo e remunerativo per l’editore, accettare l’omologazione del fenomeno come ineluttabile e, anziché approfondire, si limitano alla ricerca della scintilla che ha fatto scattare il “raptus”. Raptus parola che diventa la foglia di fico dietro alla quale nascondere l’azione omicida e la rassicurante giustificazione della stessa, da condannare certo, ma che comunque è stata sempre provocata dall’azione “fuori dal coro” della donna o in alternativa da un gesto di “follia”. Imperativo è quindi cercare il casus belli che ha provocato il raptus, identificandolo magari nel modo in cui la vittima vestiva, si truccava o semplicemente perché si “prendeva” spazi di libertà individuale. Lo vedremo anche oggi? Certo che sì. Vogliamo invece ribadire ancora, che questa di oggi, come le centinaia di uccisioni di donne in questi anni, sia compiute da chi aveva abusato del loro corpo o per mano di chi aveva loro giurato amore eterno, sono una scia di sangue insopportabile che non tende a diminuire, anzi. E’ su questo che bisognerebbe concentrare gli sforzi, non sul numero delle coltellate o “bottigliate”. Solo interrogandosi fino in fondo (e dovremmo farlo soprattutto noi maschi) si potrebbe squarciare quel velo di ipocrisia che nasconde e nega che il fenomeno della violenza, sia essa domestica o meno, nasce dalla concezione del ruolo della donna e della famiglia chiusa in u gioco di ruolo e ruoli. Ed allora ripetiamo quanto scrivevamo il 15 Giugno scorso, perché drammaticamente nulla è cambiato in questi mesi se non la “statistica” delle morti, e quando un “fenomeno” diventa oggetto di statistica e un numero si aggiunge all’altro, vuol dire che si è perso il senso della realtà. Vale per gli infortuni sul lavoro, considerati inevitabile effetto collaterale del profitto, vale per l’uccisione delle donne, considerate effetto collaterale al sistema famiglia patriarcale che tanto ancora piace nell’Italia del terzo millennio e che oggi si vede rappresentata anche a livello di governo. Nessun automatismo ovviamente, ma è innegabile che una concezione della famiglia come insieme chiuso e rigido in regole “proprietarie”, nel vertice dell’idiozia, genera violenza e sopraffazione. Allora ci sono dei passi seri da fare, ci sono delle responsabilità a cui nessuno dovrebbe sottrarsi, “uomini perbene” compresi. Deve farsi strada la consapevolezza che ciò che gli assassini hanno voluto sopprimere era l’essere donna, con tutto il suo bagaglio di originalità. Nessuna giustificazione quindi: la parola “femminicidio” non indica il sesso della morta, indica il motivo per cui è stata uccisa. Ed in effetti il punto è davvero questo, non è più tollerabile che lo si dimentichi e non ci si assuma tutta la sua portata, a partire dalla legge, che tutto sommato accetta, più o meno palesemente, che il mondo è maschio. Del resto un paese che solo da 40 anni si è liberato giuridicamente dalle attenuanti per delitto d’onore non può non far fatica ad eliminarne il tarlo. Poco importa quello che una donna vive, sente, desidera. Poco importa la qualità della sua vita, la sua dignità, perfino il suo corpo. Il suo consenso non conta o comunque conta meno. La donna in quanto tale è costantemente in libertà condizionata fin da bambina. Tutto sommato, per la cultura maschilista tutto quello che un uomo fa per riportare una donna al “posto che le compete” va bene, è giusto perché la donna è fragile e va difesa soprattutto da se stessa. Esagerazione, forse, ma di certo per molti, cresciuti in cattolicissime famiglie dove l’indissolubilità del matrimonio era necessario complemento di stabilità e sicurezza a tutti i costi, come il pane sulla tavola, resta ancora oggi inconcepibile perderne il controllo. L’idea della donna, come angelo del focolare, resta più o meno sbiadita sullo sfondo del pensiero maschile. Una concezione che è ancora presente, non dobbiamo nasconderlo, nella cultura sessista e violenta che abita nelle sfere private e perfino in quelle pubbliche di un mondo maschile e maschilizzato che vede perfino “una” premier ribadire e rinnegare nello stesso tempo il suo essere donna. Sono certamente gli uomini innanzitutto che devono assumerla la questione, ma anche la politica, la giustizia, la religione e perfino la sanità. Tutti mondi prevalentemente a trazione e cultura maschile, grazie all’eredità culturale ricevuta. In questo senso nessun maschio può sentirsi fuori dal gioco e pensare che la cosa non lo riguardi.
Fabio Folisi