Anniversario della strage Peteano capitolo di una stagione eversiva oscura di cui mancano tante verità

Era il 31 maggio 1972 quando una tremenda esplosione tolse la vita al Brigadiere Antonio Ferraro, e i carabinieri Donato Poveromo e Franco Dongiovanni. Un attentato terroristico che portò il piccolo abitato di Petano, in provincia di Gorizia, sulle prime pagine di tutti i giornali italiani per poi, come vedremo, velocemente uscirne per lungo tempo. Giusto commemorarli ma altrettanto giusto ricordare i pesanti depistaggi che seguirono alle indagini, depistaggi portati avanti proprio da alcuni appartenenti ai carabinieri. Ricostruiamo l’accaduto. Quel giorno pioveva come può accadere agli inizi d’estate, un temporale con scrosci potenti. Le cronache del tempo raccontano che da poco era terminata a Rotterdam la finale della Coppa dei campioni tra l’Ajax e l’Inter, battuta grazie a due gol del bomber Cruijff.
E’ a quel punto che da un bar, il “Nazionale” di Monfalcone, parte una telefonata anonima ai carabinieri di Gradisca d’Isonzo. Erano le 22.35 come riportava il canovaccio del centralino perchè allora non vi era nulla di digitale e la penna era il metodo più rapido per tenere gli appunti. A ricevere e a registrare su nastro la chiamata fu il centralinista di turno. Il testo della comunicazione, in dialetto, fu il seguente: «C’è una 500 bianca vicino alla ferrovia, sulla strada per Savogna, con due fori sul parabrezza». Un allarme che i carabinieri non potevano ignorare, così sul posto segnalato giunsero ben tre gazzelle dei carabinieri. La prima pattuglia ad arrivare fu quella dei militari dell’Arma di Gradisca, con l’appuntato Mango e il carabiniere Dongiovanni. L’utilitaria era ben visibile parcheggiata in un viottolo di terra battuta, subito dopo una curva. Mango decise di chiamare il suo ufficiale, il tenente Tagliari, che partì anche lui accompagnato dal brigadiere Antonio Ferraro e dal carabiniere Donato Poveromo. I tre arrivarono sul posto con una seconda gazzella alle 23.05. Successivamente arrivò sul posto una terza pattuglia da Gorizia. Fu a quel punto che i carabinieri Antonio Ferrero, Donato Poveromo e Franco Dongiovanni tentarono di aprire il cofano del mezzo, innestando un detonatore e provocando l’esplosione dell’auto. Un esplosione tremenda ben documentata dalle foto della 500 sventrata, i tre rimasero uccisi sul colpo mentre altri due militari rimasero gravemente feriti. Saltando alle conclusioni come stanno facendo tutti i giornali si dice che Peteano è uno dei pochi attentati dell’epoca di cui si conoscano i responsabili: Carlo Cicuttini, Ivano Boccaccio e il reo confesso Vincenzo Vinciguerra. Ma quella di Peteano è una ferita ancora aperta, una delle prime pagine di quello stragismo italiano che ha seminato morte in tutta Italia, da piazza Fontana a piazza della Loggia, dalla stazione di Bologna all’Italicus. Pagine di morte su cui non è stata ancora scritta tutta la verità, sperando di poter semplificare tutto e chiudere la stagione con delle belle commemorazioni sulle vittime. Ed allora aggiungiamo un pezzo di storia che gli atri giornali, almeno oggi quelli web, stanno tacendo ma che siamo sicuri non troverà spazio neppure sui giornali di domani, parliamo dei depistaggi su Peteano.
Iniziamo per inquadrare se pur in poche righe il periodo storico. Una fase di delicato contesto storico-politico, il 7 maggio poche settimane prima dell’attentato si erano svolte le elezioni politiche anticipate, che avevano assegnato la guida del paese a un nuovo esecutivo presieduto da Giulio Andreotti, mentre il 17 maggio si era verificato l’omicidio Calabresi. Un periodo caldissimo nel quale vi erano anche voci di un possibile colpo di Stato che avrebbe avuto, secondo molte teorie, burattinai atlantici. In quel contesto si colloca l’attentato di Peteano, una strage anomala perchè indirizzata verso l’arma dei carabinieri.
A dirigere le indagini sulla vicenda arrivò il colonnello Dino Mingarelli, vecchio collaboratore del chiacchieratissimo generale Giovanni de Lorenzo. Mingarelli diresse subito la sua inchiesta verso gli ambienti di Lotta Continua di Trento, ma le indagini non ottennero gli esiti previsti, dalla magistratura milanese giunse l’informazione secondo cui l’attentato sarebbe stato attuato da un gruppo terrorista neofascista.
L’informazione era stata data da Giovanni Ventura, nel frattempo arrestato per la strage di piazza Fontana: il colonnello tuttavia scartò l’indicazione milanese, in quanto un ordine del SID (Il Servizio informazioni difesa il servizio segreto italiano nato nel 1966 e poi sciolto nel 1977) lo invitò a sospendere le indagini sul gruppo terrorista di estrema destra. Il colonnello, con il suo braccio destro l’allora capitano Antonino Chirico, rivolse le attenzioni investigative verso sei giovani, conducendoli a processo: secondo il Mingarelli essi si sarebbero vendicati di alcuni sgarbi subiti dai carabinieri. Ma il movente proposto non convinse i giudici, che assolsero i sei giovani, i quali, una volta liberi, denunciarono Mingarelli per le false accuse, dando inizio a una nuova inchiesta contro ufficiali dei carabinieri e magistrati per aver deviato le indagini. L’istruttoria sulla strage a quel punto si era indirizzata verso gli ambienti neofascisti. Ma praticamente per una dozzina di anni le indagini e i procedimenti giudiziari ignorarono i veri colpevoli, focalizzandosi invece su una varietà di indiziati e imputati che non hanno nulla a che fare con il crimine. Tra l’altro, all’inizio viene imboccata una pista rossa legata a Lotta Continua, che poi viene abbandonata per la sua palese inconsistenza, una pista che era però politicamente utile. Soltanto nel 1984 la responsabilità dell’attentato viene confessata da Vincenzo Vinciguerra, un militante di Ordine Nuovo che, dopo essere stato latitante prima in Spagna e poi in Argentina, si è costituito nel 1979 ed è già in carcere per un’altra accusa. Da detenuto, dunque, Vinciguerra confessa spontaneamente l’attentato di Peteano, senza ripudiare il suo passato, rivendicando anzi con orgoglio la propria qualità di soldato politico. Egli afferma di confessare allo scopo di “fare chiarezza”, avendo compreso che tutte le precedenti azioni della destra radicale, incluse le stragi, in realtà erano state manovrate dallo stesso regime che si proponeva di attaccare. Dichiara infatti Vinciguerra: “Mi assumo la responsabilità piena, completa e totale dell’attentato, che si inquadra in una logica di rottura con la strategia che veniva allora seguita da forze che ritenevo rivoluzionarie, cosiddette di destra, e che invece seguivano una strategia dettata da centri di potere nazionali e internazionali collocati ai vertici dello Stato…” L’unico fatto realmente rivoluzionario, secondo Vinciguerra, è proprio quello di Peteano, “azione di guerra contro lo Stato (nelle persone dei carabinieri) e non contro la folla, in
maniera indiscriminata”». Ma come si direbbe in una spy story l’intrecci si infittisce e vengono fuori poco edificanti “altarini” che spiegano il perchè la strage di Peteano venne da subito circoscritta al territorio goriziano, tenuta lontana dalle cronache e ancora più lontana dagli avvenimenti stragistici che per primi avevano scosso l’opinione pubblica e la vita civile degli italiani. La risposta la diede l’allora giudice istruttore Felice Casson secondo cui la strage era tutt’altro che locale e venne “depotenziata” dai servizi deviati per nascondere la strategia della tensione che era collegata con Gladio, la struttura clandestina paramilitare sorta per contrastare la minaccia comunista.
Proseguendo sulle indagini sulla Strage di Peteano, il terrorista neofascista Vincenzo Vinciguerra – reo confesso per la strage parlò come un torrente in piena e rivelò nel 1982 come il segretario del MSI Giorgio Almirante avesse fatto pervenire la somma di 35.000 dollari al latitante Carlo Cicuttini, dirigente del MSI friulano e coautore della strage, affinché modificasse la sua voce durante la sua latitanza in Spagna mediante un apposito intervento alle corde vocali: tale intervento si rendeva necessario poiché Cicuttini, oltre ad aver collocato materialmente la bomba assieme a Vinciguerra, si era reso autore della telefonata che aveva attirato in trappola i carabinieri e la sua voce era stata identificata mediante successivo confronto con la registrazione di un comizio del MSI da lui tenuto. Nel giugno del 1986, a seguito dell’emersione dei documenti che provavano il passaggio del denaro tramite una banca di Lugano, il Banco di Bilbao e il Banco Atlantico, Giorgio Almirante e l’avvocato goriziano Eno Pascoli vennero rinviati a giudizio per il reato di favoreggiamento aggravato verso i due terroristi neofascisti. Furono rinviate a giudizio 18 persone, tra militanti di destra e ufficiali dei carabinieri, mentre il magistrato triestino Bruno Pascoli morì durante il processo. Vinciguerra e Cicuttini vennero condannati all’ergastolo, Carlo Maria Maggi a 12 anni per reato associativo, Carlo Digilio e Delfo Zorzi rispettivamente a 11 e 10 anni per lo stesso reato; altri militanti locali sono stati condannati a pene tra i 4 e i 6 anni (Gaetano Vinciguerra, Giancarlo Flaugnacco e Cesare Benito Turco). Eno Pascoli è stato condannato a 3 anni e 9 mesi, la moglie Liliana De Giovanni a 11 mesi, mentre Almirante usufruì dell’amnistia. Gli ufficiali ritenuti colpevoli di depistaggio (Antonio Chirico, Dino Mingarelli, Giuseppe Napoli e Michele Santoro) furono condannati a pene comprese tra i 3 e i 10 anni e 6 mesi.
La sentenza d’appello confermò solo l’ergastolo di Carlo Cicuttini (Vinciguerra non aveva fatto ricorso) assolvendo tutti gli altri imputati ma la Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, annullò con rinvio le assoluzioni di Chirico, Mingarelli e Napoli, confermando invece le altre decisioni . Nel nuovo processo fu accertato il depistaggio dei tre ufficiali, condannati a 3 anni e 1 mese (Giuseppe Napoli) e a 3 anni e 10 mesi (Antonio Chirico e Dino Mingarelli)[12], condanne diventate definitive nel 1992. Nell’ultima inchiesta è stato accertato anche il depistaggio di un perito e di altri Ufficiali dei Carabinieri, accusati di falsa testimonianza.
Cicuttini, fuggito in Spagna, venne catturato a ventisei anni dalla strage, nell’aprile del 1998, quando fu vittima egli stesso di una trappola: la procura di Venezia gli fece offrire un lavoro a Tolosa dove, recatosi convinto di intraprendere le trattative contrattuali, venne arrestato dalla polizia ed estradato dalla Francia in Italia dove morì nel 2010. Attualmente Vincenzo Vinciguerra sta scontando una condanna all’ergastolo in qualità di reo confesso della strage.
Mentre il terzo uomo che operò l’attentato Ivano Boccaccio entro nelle indagini da morto, infatti il 6 ottobre del 1972 quatro mesi dopo Peteano tentò il dirottamento di un velivolo all’aeroporto di Ronchi dei legionari. Boccaccio ex parà chiede un riscatto di 200 milioni e un salvacondotto per fuggire all’estero. Inizia una lunga trattativa telefonica durata circa 11 ore: l’equipaggio e i passeggeri però riescono a mettersi in salvo e la situazione scappa di mano gli agenti in forze attaccano il piccolo aereo fermo sulla pista. Il Boccaccio che è solo nella cabina, lancia una bomba a mano. Tre agenti, non indietreggiano e riescono a nascondersi sotto un’ala del Fokker. Boccaccio li intravede e dalla cabina, esplode un colpo che colpisce a una mano l’appuntato di Ps Michele Barbarossa. I tre agenti, erano presenti oltre a Barbarossa, l’appuntato dei carabinieri Alessandro Piscopo e il maresciallo di polizia Nino Valente, aprono il fuoco, un proiettile colpisce Boccaccio alla testa e lo uccide.
Ci sarà ancora molto da scoprire su quella stagione folle, e anche se con una direttiva del 22 aprile 2014, tutti i fascicoli relativi a questa strage non sono più coperti dal segreto di Stato e sono perciò liberamente consultabili da tutti, è passato troppo tempo , troppo tempo a disposizione per manipolatori e le forbici dei molti che dall’interno dello Stato hanno avuto opportunità e volontà di inquinare prove, fatti e testimonianze.