Raduno nazionale degli alpini a Udine. Una festa non per tutti e non di tutti
C’è chi ha inserito nel proprio sito il conto alla rovescia per scandire quanto manca all’inizio della sfilata degli alpini, noi che cerchiamo di essere fuori dal coro delle stucchevoli lodi, ma non critici a priori, aggiungiamo al conteggio un giorno e scandiremo quanto invece manca alla fine di questa kermesse, una invasione che, se pur non bellicosa, è pur sempre una invasione. Intendiamoci, nulla abbiamo contro l’associazione nazionale alpini e non disconosciamo i consolidati meriti nel campo della protezione civile che in questi decenni, meritoriamente, l’associazione si è conquistata sul campo nei disastri climatici, terremoti ed emergenze varie. Ma un conto è l’attività dell’associazione, un conto è la narrazione, spesso storicamente distorta, che si da del corpo in senso militare che ha avuto la sua apoteosi negativa nell’Istituzione della “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini” visto che è stata fissata al 26 gennaio. La data scelta è quella della battaglia di Nikolajewka, combattuta nel 1943 dagli alpini durante la ritirata dal fronte russo.
Vero che c’erano gli alpini, ma altrettanto vero che i nostri governanti considerano degna di imperitura memoria un’impresa compiuta inquadrati nelle forze nazifasciste quando si poteva tranquillamente ricordare il sacrificio degli alpini in cento altre imprese militari fin dal primo conflitto mondiale o magari ricordando la tragica morte di quei 32 giovani finisti sotto le macerie della caserma Goi Pantanali il 6 maggio del 1976 in Friuli. Ma della giornata della memoria parleremo in maniera specifica, ora concentriamoci sulla cronaca di “giornata” e andiamo per ordine. Iniziamo dall’invasione, termine che siamo consapevoli sia “forte” addirittura abusato dato che se viene utilizzato anche in altri casi, come per i migranti. Ed allora lo possiamo sdoganare nel solco dell’imprecisione anche per gli alpini. Partiamo dal raduno a Udine, pur capendo che un sindaco, per di più appena insediato, non potesse che avvallare le decisioni già prese (anche se si a nostro vedere inopportunamente sperticato nel ringraziare chi lo aveva preceduto) seguendo così in maniera acritica la “corrente di una narrazione nazional-popolare”. Dei distinguo De Toni sarebbe stato opportuno li facesse, anziché enfatizzare l’aspetto “economico” dell’arrivo di alcune centinaia di migliaia di persone in città. Insomma un affarone quelle cinquecentomila presenze a sentire la politica. Si tratta però prevalentemente di uomini, come è noto, che rimpingueranno certamente le casse dei dispensatori alcolici della città e dintorni, ma meno di quello che si pensi, dato che, come tradizione militare vuole, le masserizie sono spesso al seguito. La valutazione fatta di un indotto economico intorno a 170 milioni di euro pare un numero sproporzionato, buttato lì senza alcuna specifica e accettato dalla stampa come verità rivelata. Fossero solo bicchieri di vino sarebbe pari a 85milioni di “tagli” che equivarrebbe a 170 bicchieri pro capite, abbastanza per far entrare in coma etilico anche il più accanito bevitore. Dati buttati lì anche i nostri ovviamente, ma esattamente come quelli che girano sugli incassi. Fra l’altro il primo problema per valutare i “costi-benefici” di tale arrivi è quello della gestione politico-amministrativa della città e dei suoi costi che sono totalmente a carico della collettività e non solo di quella cittadina. Quanto viene promozionato per di più come positiva correlazione all’evento (aumento forze dell’ordine e relativi straordinari, più ambulanze, raccolta rifiuti, posa transenne ecc ecc) sono in realtà costi e disagi certi, per non parlare della mortificazione della viabilità che farà diventare impraticabile la città a chi, al raduno non è interessato. Sono tutti “costi”, compresi quelli culturali della chiusura delle scuole, ai quali si contrappone una mercificazione degli spazi riportando l’evento ad essere schiacciato sulle valutazioni di mero parametro del profitto economico. Fra l’altro nei giorni del raduno, che i realtà ha effetti non solo nella domenica della sfilata ma con progressività crescente nei giorni precedenti e successivi all’evento, verranno probabilmente fatti effettivamente grandissimi guadagni, ma queste entrate restano nelle mani di pochi. L’altro lato della medaglia è che i lavoratori e le lavoratrici del comparto ristorazione, ma anche della sicurezza, per non parlare di sanità, raccolta dei rifiuti e pulizia delle strade, saranno obbligati a turni massacranti. Udine è una città di 100 mila abitanti e quintuplicare le presenze, pur per qualche giorno, metterà sotto stress un intero sistema, dalla mobilità alle fognature, per non parlare degli enormi disagi per residenti e per la viabilità cittadina che, come è noto, verrà praticamente azzerata, paralizzata. Il tutto per consentire lo svolgimento di una parata che, diciamolo, è sempre eguale a se stessa. Una volta che ne hai vista una, le hai viste tutte. Un divertimento per chi sfila probabilmente, ma soprattutto per il contorno di colossali bevute, mangiate pantagrueliche e cori stonati. Niente di male se si eviteranno eccessi. Ma c’è comunque un problema sicurezza. Non volendo entrare nella polemica sulle molestie e possibili violenze sessuali avvenute in passato (anche fosse stata una sarebbe comunque troppo) i comportamenti di presunti catcalling (molestie per strada alle donne) sono molto presenti. Bisogna dire che inevitabilmente alcuni comportamenti border-line si accompagnano a qualsiasi raduno militare o civile che sia. L’assembramento di migliaia di persone ha degli effetti, soprattutto quando la sottocultura alcolica è una costante. In sostanza è innegabile che la problematica esiste, lo racconta la cronaca del passato, ma soprattutto lo provano studi sociologici che spiegano come molti uomini, che presi singolarmente sono degne persone, messe in gruppo entrano spesso in competizione tra di loro: per chi è il più audace, più forte, più macho. Questo accade spesso e poi ci sono gli eccessi di alcuni, generalmente una minoranza, ma pericolosa. Costoro sono, ci dicono gli studi, generalmente guidati dalla dilagante mancanza di autostima, delusione e frustrazione nella propria vita in generale e vedono nell’occasione la possibilità dello sfogo dei propri istinti. E’ lo stesso fenomeno che riguarda gli stadi. È un segno di un’educazione grezza, che si presta a una sorta di competizione tra i gruppi. Riconoscendo però che i valori professati dagli Alpini mettono un limite a questi comportamenti, resta il problema che non tutti quelli che partecipano al raduno sono veramente alpini. Molti sono soggetti in cerca di “casino e divertimento” che vedono in questa occasione la possibilità di sfogarsi. Lo aveva denunciato a seguito delle polemiche post raduno di Rimini la stessa dirigenza Ana, ipotizzando che le molestie ci sono state, anche se non sono risultati, o meglio provati, profili penali rilevanti. Azioni compiute da uomini che hanno comprato un cappello piumato e che si sono finti alpini: “Ci sono centinaia, se non migliaia, di giovani che, pur non essendo alpini, avevano spiegato da Ana, approfittano della situazione. A costoro, spiegavano, per mescolarsi alla grande festa, basta infatti comperare un cappello alpino, per quanto non originale, su qualunque bancarella. Un occhio esperto riconosce subito un cappello ‘taroccato’, ma la tendenza è nella maggior parte dei casi a generalizzare”. Insomma l’associazione spiegava così e aggiungeva che “la grandissima maggioranza dei soci dell’ANA, a causa della sospensione della leva nel 2004, oggi ha almeno 39 anni: quindi persone molto più giovani difficilmente sono autentici alpini”. In realtà il catcalling è praticato, come sanno bene le donne di ogni tempo e età, non solo da giovani ma anche da uomini di una certa età. Questo avviene non solo nei raduni d’arma ma in tantissime occasioni, dai parchi ai mezzi pubblici, perché purtroppo la nostra società ha sempre visto la donna come un oggetto di piacere e in molti casi come una preda. Studi sul catcalling lo affermano chiaramente, alla base di tutto, travasi sui social compresi, c’è questa ideologia maschilista che porta alcuni uomini a pensare che una donna, che semplicemente cammina per strada, sia lì per essere valutata, commentata, sessualizzata e per compiacere l’uomo cacciatore. In genere tutto si ferma ai commenti verbali, ma questo può comunque fare male, può instillare paura e anche lasciare effetti psicologici di lunga durata in chi li subisce. Ovviamente speriamo che a Udine questi fenomeni siano limitati, anzi che non si manifestino proprio, ma anche questi fattori dovrebbero essere tenuti in conto quando si decide di ospitare eventi di massa di questo tipo che diventano poi anche stucchevole passerella per il mondo della politica a tutti i livelli. Non a caso il presidente Giorgia Meloni sarà a Udine nel corso della sfilata assieme al ministro della difesa Guido Crosetto e c’è da scommettere che in prima fila vedremo politici di ogni colore politico e genere piumarsi impegnati nel prendersi un pezzettino di immagine nazional-popolare. Non si tratta di vietare i raduni, ovviamente, ma almeno che si discuta anche di quanto manifestazioni del genere si trascinano dietro.
La “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”
Più specifica è invece la questione di cui abbiamo accennato in apertura di questo articolo, la questione della Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini” fissata in maniera inopportuna concomitante con la battaglia di Nikolajewka. Sinceramente fossi un alpino in congedo non apprezzerei l’accostamento con quei fatti. La genesi di questa commemorazione infatti ci racconta molto. Tutto ha inizio l’11 maggio del 2018, esattamente 5 anni fa, con una proposta di legge presentata da un nutrito gruppetto di deputati leghisti e avente come primo firmatario il l’ormai ex deputato Guglielmo Golinelli. Nella proposta di legge si leggeva fra l’altro che è stata scelta la data del 26 gennaio per “l’Istituzione della Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini” in ricordo di una delle più importanti e gloriose battaglie che videro in prima linea il Corpo d’armata alpino durante la seconda guerra mondiale. Si legge nella norma: “Dopo nove giorni di marcia e venticinque battaglie di sfondamento e retroguardia, una sorta di disperata avanzata all’indietro, gli alpini giunsero all’appuntamento finale: lo sbarramento russo di Nikolajewka il 26 gennaio 1943. I 13.420 uomini rimasti del Corpo d’armata alpino – erano più di 60.000 dieci giorni prima – espugnarono il paese di Nikolajewka. Le forze sovietiche vennero sopraffatte dagli alpini della divisione Tridentina, comandati dal loro eroico comandante, il generale Reverberi, che li trascinò all’attacco delle postazioni russe al grido di “Tridentina avanti!”».
Oibò questo è scritto nel testo depositato nel maggio del 2018 che venne poi approvato alla Camera, con nessun contrario (7 astenuti) per poi essere approvato, in via definitiva, dal Senato con 189 voti a favore, un astenuto e nessun contrario ed entrare il vigore il 5 maggio 2022. Diciamo subito che nessuno disconosce i meriti degli alpini, ma la scelta di quella data è stata un errore ed onestà intellettuale vorrebbe che, soprattutto la sinistra, inserisca anche quel voto negli errori ed orrori, davvero troppi, che sono alla base di molti guai elettorali oggi patiti da quell’area politica. Così il 5 maggio del 2022 mentre era già in corso la guerra tra Russia e Ucraina e ci si sperticava nel parlare di difesa della democrazia, integrità dei confini e libertà, il parlamento italiano ha considerato degna di imperitura memoria un’impresa compiuta, comunque la si vuole vedere, da chi era nella parte sbagliata della storia, uniti alle forze nazifasciste a Nikolajewka. Si inquadra anche questa vicenda in tutti i tentativi di riscrivere la storia, di creare una narrazione diversa del fascismo delegittimando la resistenza. Leggere cosa accadde a Nikolajewka nel 1943, seguendo il racconto “ufficiale” del sito ministeriale www.difesa.it, è davvero istruttivo. (In calce il Pdf cliccabile).
In pratica si commemora un massacro, senza una parola sulle responsabilità storiche e militari del fatto che la “neve si era tinta di rosso: su di essa giacevano senza vita migliaia di alpini e moltissimi feriti” ma si enfatizza l’eroismo del generale Reverberi che, bisogna chiarire, non stava difendendo la sua patria ma il nazifascismo. Si legge ancora nel testo ministeriale: “quando ormai stavano calando le prime ombre della sera e sembrava che non ci fosse più niente da fare per rompere l’accerchiamento, il generale Reverberi, comandante della Tridentina, saliva su un semovente tedesco e, incurante della violenta reazione nemica, al grido di “Tridentina avanti!” trascinava i suoi alpini all’assalto”. Sulla campagna di Russia dobbiamo aggiungere che, verosimilmente, molti soldati, alpini compresi, non avrebbero voluto essere in quella terra lontana e gelida, alla mercé di generali che, in nome di non si sa quale onore, li spingevano a morte certa davanti a un nemico che, quello sì, difendeva la propria patria. Nel 1943 la parte degli aggressori non la facevano i russi ma anche i “nostri” alpini, mandati dai nazifascisti a farsi macellare e a macellare. Non eroi, ma vittime della guerra. Per capire le dimensioni del massacro basti sapere che Corpo d’armata alpino ne tornarono poco più di 13000, 47000 non tornarono mai più a casa e pesano, o dovrebbero farlo, anche sulla coscienza dei nipotini del regime fascista oggi al governo o di chi cerca di mistificare la storia. Certo il raduno degli alpini direttamente con i fatti del 1943 centra poco, ma forse ricordare quei fatti dovrebbe essere compito anche delle penne nere del terzo millennio, anche fra un coro e l’altro.
Fabio Folisi