Riflessioni sulla Poesia di Strada e la necessità di un cambiamento artistico di Mathias PDS

Per un considerevole periodo della mia vita ho sostenuto un ideale che
si proponeva di costituire un movimento poetico impegnato nella
mobilitazione, utilizzando l’arte delle parole dipinte sui muri per
sensibilizzare il prossimo, per condividere riflessioni e momenti di
gioia con i passanti. Tuttavia, ho rilevato che tale forma espressiva
non ha incontrato la comprensione nè tantomeno l’accoglienza che
avevo auspicato. Le nostre poesie, talvolta provocatorie, hanno faticato
a uscire dall’ambito urbano e l’indifferenza prevalente ha influito
negativamente sulla vitalità dell’idea. L’approccio forzato al
mantenimento di un movimento artistico, che sorge e svanisce in
modo naturale, si è dimostrato inutile, motivando così la mia scelta di
cambiare prospettiva. Non intendo limitarmi a una pratica di
creazione poetica tradizionale, bensì desidero esplorare nuove e
diverse modalità espressive. La decisione di affrontare il rischio di
adottare un approccio inesplorato rappresenta il cuore della mia
nuova direzione. È possibile che un giorno, attraverso un’analisi
attenta, un critico dotato di profonda perspicacia possa riconoscere il
contributo di pochi poeti contemporanei che, con coraggio, hanno
diffuso un concetto precedentemente sconosciuto: la “poesia di
strada”, arricchita dalle sue ramificazioni filosofiche. Questo concetto
ha preso forma grazie al nostro impegno costante, disseminato a livello
nazionale e sostenuto dalle citazioni storiche documentate in diverse
fonti giornalistiche, nonché dall’entusiasmo di coloro che hanno
condiviso la nostra visione. In virtù di questa prospettiva, guardo
avanti con gratitudine, riconoscendo l’investimento di oltre dieci anni
della mia vita in questo percorso. Ora però è giunto il momento di
abbracciare un cambiamento, voltando pagina con determinazione.
Cambiare aria fa bene alla salute. Cosa hanno in comune, dopotutto,
un ritrattista che dipinge volti di soggetti umani per tutta la vita, un
rapper che compone esclusivamente tracce alla Eminem e una
ballerina di danza accademica che ripudia tutte le espressioni di
movimento corporeo al di fuori della propria tecnica? La ripetitività è
un concetto che da sempre mi terrorizza, la regolarità che spinge quasi
la totalità degli artisti di cui sono a conoscenza a stanziarsi in un
cantuccio del proprio sé, ad insediarsi tra le quattro mura del proprio
genio, consapevoli del proprio talento, forti del fatto che un
impressionista non potrà che restare tale, così come uno scrittore noir
non potrà che scrivere romanzi neri per tutta la propria esistenza e via
dicendo. Per svariati creativi il pellegrinaggio inteso come percorso di
evoluzione artistica incute un certo timore, mentre la metamorfosi
rappresenta un vero e proprio incubo; arrogarsi della presunzione di
sapere fare molto sarebbe come ammettere al mondo intero di non
sapere fare quasi nulla. Meglio restare umili, trovare la propria
dimensione e navigarci dentro fino ad esaurire inventiva e caparbietà.
È un discorso tanto limitante quanto logico; ma anche tanto antipatico
e tedioso dal momento che siamo tutti soggetti a trasformazione. La
nostra vita è in costante aggiornamento, e dal mio personalissimo
punto di vista arrestare la propria inventiva corrisponde a reprimere
parte della propria creatività. Ecco perché l’artista diventa tanto
affascinante più azzarda e sperimenta, più mette in gioco se stesso,
più percorre sentieri mai battuti o comunque tremendi da percorrere.
Spegnere e ripristinare il proprio sistema corrisponde a uccidere un
primo artista per farne nascere un secondo, vuol dire guardare con
occhi diversi la luna, indossare altre pelli ed altre maschere.