Tutti a casa

Un po’ come ci illustrava Comencini in un suo famoso film; in seguito all’armistizio del 8 settembre 1943, l’esercito italiano o almeno una sua parte brancolava nel buio nell’incertezza e nel dubbio su cosa fare. Certo è che chi era informato che le alleanze erano cambiate, faceva il possibile per mollare le armi e divisa per cercare di tornarsene a casa. Come poi siano andate le cose, è storia complicata. Detto questo, facciamo luce e sgombriamo il campo da interpretazioni faziose ed improprie su un’altra questione e più legata alle vicende odierne. Ieri era il giorno della Memoria, il giorno in cui l’armata sovietica entrava nel campo di Aushwitz trovandosi di fronte le scene del più immane crimine della storia moderna; la Shoah. Uno dei pochi sopravvissuti tra gli ebrei che ancora erano imprigionati nel lager più famoso (ce n’erano molti altri purtroppo) era Primo Levi, autore di un libro tra i più angoscianti che sia mai stato scritto e che racconta di come alcuni (troppi anche oggi) esseri umani (umani?) erano riusciti a portare avanti una tragica follia rendendo la vita di altri loro simili (per fortuna solo simili…) in condizioni inenarrabili. 5-6 milioni di ebrei assassinati e passati attraverso i forni crematori dopo aver subito violenze inimmaginabili.
Questo libro, “Se questo è un Uomo”, dovrebbe essere letto in tutte le scuole, altro che la Bibbia come si propone di fare il nostro ministro dell’istruzione e del merito (se fosse davvero del merito lui non occuperebbe quella posizione). Ecco, ci tenevo a precisare quanto sopra per evitare che qualche mente bacata possa accusarmi di essere un Goebbels 2.0 (…..) a causa delle critiche e della mia posizione in merito ai crimini del governo e delle forze armate israeliane a Gaza e in Cisgiordania. Come se la violenza imposta ai palestinesi fosse in qualche modo giustificata da quanto gli ebrei hanno patito nella storia (anche prima della Shoah) e le accuse nei confronti delle politiche attuali di Tel Aviv rappresentassero la negazione del diritto di Israele di esistere. Punto!
In ogni caso, un cessate il fuoco è in atto e per ora pare tenere sperando che tutti rispettino le condizioni di questo armistizio e che si possa arrivare finalmente ad una pace duratura. Non sarà facile, ma “inshallah”. Centinaia di migliaia di palestinesi sfollati soprattutto dal nord di Gaza, hanno fatto le valige (sì, sto esagerando in quanto ciò che loro rimane occupa poco spazio anche all’interno di una valigia) e si stanno muovendo verso il nord della Striscia. Una catena umana impressionante che attraverso le due arterie stradali principali, o ciò che resta di quelle strade, la Al Rasheed e la Salah al Din sono intasate. La prima dedicata a chi si muove a piedi, la maggioranza delle persone; la seconda invece che consente il traffico di qualsiasi mezzo dotato di ruote. Auto minibus, carrette trainate da asini, animali davvero eroici e indispensabili sia prima che particolarmente in seguito al tragico 7 ottobre 2023, e alla mattanza che ne è conseguita.
Un esodo, anzi controesodo, probabilmente non completamente previsto dagli israeliani che avevano inizialmente bloccato la fiumana umana ma che poi hanno dovuto rimuovere gli sbarramenti e lasciare di nuovo passare le persone. Dove sta andando tutta questa gente, considerando che in particolare il nord di Gaza è stato raso al suolo? Come sopravviveranno tutte queste 300.000 persone che sono arrivate a Gaza city, Jabalia, Beit Hanoun e dintorni? È lecito farsi queste domande soprattutto se non si è mai vissuta anche se indirettamente una situazione del genere. È difficile comprendere come il richiamo della propria casa, anche se con ogni probabilità non esiste più, sia così forte da far abbandonare ogni indugio e ritornare dove la parola vita aveva un senso, significava non solo un tetto o un misero lavoro che permettesse di tirare a campare, ma significava rapporti umani, comunità, famiglia, scuola e accesso a un servizio sanitario sebbene precario.
I miei personali ricordi tornano al 1999, quando una volta terminata la criminale operazione dell’esercito serbo e soprattutto delle milizie di Akan e compagnia, il Kosovo era finalmente libero dagli occupanti. Ricordo che la maggior parte degli analisti di geopolitica dichiaravano che il ritorno non ci sarebbe stato in tempi brevi e le centinaia di migliaia di kosovari presenti in Albania non si sarebbero mossi per almeno parecchi mesi. Ricordo le riunioni tra Ong internazionali e Agenzie dell’ONU per cercare di coordinare il ritorno degli sfollati e rifugiati, discussioni in cui non solo non si capiva che la priorità era tornarsene a casa o in ciò che era rimasto e non rimanere ed aspettare un rientro organizzato ed assistito che comunque avrebbe preso troppo tempo per essere messo in piedi. Ricordo che si discuteva se era meglio preparare le bottigliette di acqua grandi oppure piccole, oppure come confezionare i contenitori…
All’epoca collaboravo alla gestione di 6 campi profughi in Albania e non era difficile capire quali fossero le vere esigenze degli “ospiti”. In qualche giorno abbiamo organizzato un convoglio di una decina di autobus che da Valona partirono con destinazione Prizren da dove poi la gente si sarebbe diretta verso gli altri luoghi di origine. Altre persone, soprattutto dai campi del nord, erano già partite con ogni mezzo, proprio come avviene ora a Gaza. Posso dire che accompagnare quel convoglio è stata una delle esperienze più intense relative al mio lavoro; all’epoca non era facile raggiungere Kukes, al confine tra Albania e Kosovo e le strade si inerpicavano e ridiscendevano attraverso le montagne del nord del Paese delle aquile. Una fiumana ininterrotta di auto, autobus, camion, carretti illuminava la notte e i pendii di quelle zone interne così impervie. Molti mezzi finivano in panne e ostruivano il traffico di quelli che li seguivano, ma la marcia non si interrompeva. Cosa si sarebbe trovato una volta a destinazione non era chiaro, ma nulla avrebbe potuto fermare il richiamo della propria casa e di quella vita che in qualche modo avrebbe dovuto riprendere.
Ciò che rimane delle città e dei villaggi a Gaza oggi è sicuramente meno di quanto avessero trovato i kosovari all’epoca, ma questo poco conta. In qualche modo, certo gli aiuti internazionali saranno indispensabili, si sopravviverà e l’inverno presto o tardi finirà. La mancanza dei beni essenziali come l’acqua, l’elettricità, il cibo, non impedirà alla gente di tornare; piano piano si comincerà a riparare quello che è riparabile, la vita comincerà a riprendersi anche in mezzo alle rovine. Quanto riparabile o recuperabile sarà rimesso in piedi e se le persone saranno lasciate in pace e riceveranno un minimo di assistenza, la vita riprenderà un suo corso; difficile, impervio, ma inarrestabile e chi pensava che radere al suolo intere città e villaggi bastasse ad arrestare l’esigenza di tornare a casa, non ha fatto i conti con la capacità di resistenza e resilienza dell’essere umano. Ne dovremmo sapere qualcosa noi friulani che in seguito al terremoto del ’76 siamo stati capaci, anche attraverso l’indispensabile solidarietà che ci è arrivata da tutto il mondo, di ricostruire i nostri paesi.
Cerchiamo di ricordarcene e concediamo ad altri le stesse opportunità. Israele permettendo…

Docbrino