Niente agenda Smemoranda, nessun appunto sulle tante guerre in atto
Non so se esista ancora, ma quell’agenda dal nome “Smemoranda” ad un certo punto era divenuta un must in alcuni ambienti. Serviva, ovviamente, per ricordarsi di ciò che si doveva fare e magari a segnarsi qualche appunto che altrimenti sarebbe svanito nei meandri della e memoria. Ecco, è proprio questo che succede quando i fatti si accavallano e le priorità si confondono; non è possibile prestare attenzione a tutto e dunque anche a fatti e vicende che altrimenti la meriterebbero. A quanto pare, forse perché è una guerra tra bianchi, buttando un occhio nelle pagine dei giornali si dovrebbe desumere che di guerre in giro per il mondo ce ne sia solo una, mentre, pur ammettendo che questa sia particolarmente virulenta e combattuta sul campo, quella causata dall’invasione russa in Ucraina si trova in allegra (non troppo per chi ci si trova in mezzo) compagnia. Ce ne sono alcune che da sempre sono praticamente ignorate, tipo quella in Yemen, altre che sono troppo lontane dai nostri occhi, per esempio in Mali, Burkina Faso, Congo, Repubblica Centrafricana ma la lista è bella lunga, altre ancora così vicine che dovrebbero abbagliarci, tipo in Libia ma che non consideriamo guerra probabilmente per nascondere le nostre responsabilità. Ma di conflitti con dinamiche tra di loro diverse ce ne sono anche altre che definire tali provoca troppi fastidi; che ne so, l’illecita occupazione lunga ormai più di mezzo secolo della Palestina da parte di Israele e la conseguente implacabile repressione. Sì, forse definirla guerra non è letteralmente corretto, ma vallo a spiegare ai palestinesi. Io da quattro anni e mezzo mi trovo in mezzo a quella siriana, una zona che a noi appare lontana ma che non lo è più dell’Ucraina e con cui abbiamo in comune secoli di storia, molto più che con l’estremo lembo di Europa, che comunque rimane tale. Nell’ultimo periodo la Siria, di riflesso rispetto all’invasione russa e ai mille risvolti che quella crisi comporta, è tornata di attualità. Finlandia e Svezia hanno ufficialmente chiesto di entrare nella Nato; richiesta che deve essere approvata da tutti i paesi che fanno parte dell’alleanza atlantica. Uno dei più importanti, ma anche il punto più critico, è la Turchia a cui non pare vero di sfruttare perfidamente la situazione e di bocciare le candidature dei due Paesi scandinavi. In realtà ad Erdogan non interessa più di tanto l’allargamento, ma vuole la sua parte di bottino, come succede in tutte le guerre. In parole povere, chiede il permesso di completare l’opera iniziata nel 2016, e proseguita nel 2018 e 2019, di rifinire l’occupazione della fascia di territorio siriano al confine con la Turchia per una profondità di una trentina di km. Quella che conosciamo come Rojava, ovvero la parte occidentale del Kurdistan. Se da una parte i Paesi occidentali si scandalizzano per l’indecente proposta, dall’altra nicchiano; primo perché delle sorti dei kurdi se ne fregano altamente, secondo perché magari chiudendo un occhio e forse due e lasciando fare ai turchi, non si sa mai che si riesca a ricucire lo strappo che da qualche anno, da quando in Turchia è stato tentato un colpo di stato in cui, nonostante fingano il contrario, gli Usa hanno avuto un ruolo che Erdogan non ha mai perdonato, ha provocato parecchi dissensi, tra i quali la temporanea chiusura della base di Incirlik (dove sono stoccate gli ordigni nucleari Usa), l’acquisto del sistema antimissilistico russo S400 e la relativa sospensione del programma di acquisto degli F35. Tutto ciò rafforzando i complicati, ma pericolosi per la NATO, legami che esistono tra Mosca ed Ankara. Non si sa mai che concedendo il contentino al governo di Ankara, lo stesso non decida di rivedere quei rapporti che in altre situazioni (Libia, la stessa Siria, il Caucaso) pongono russi e turchi su versanti opposti. Per far vedere che fa sul serio, l’esercito turco sta ammassando, anche se in modo ancora non propriamente convinto, truppe e mezzi presso i pochi confini ancora sotto il controllo siriano (kurdo in realtà) e ha messo in allarme i suoi fidati alleati, la poco coesa coalizione del dell’SNA (Syrian National Army), un branco di tagliagole perennemente in lotta cruenta tra di loro e che danno dei moderati ai loro compari (ma poco amici), di HTS (Hayat Tahrir al Sham), ciò che rimane di Al Qaeda in Syria. HTS che in effetti ultimamente sta cercando di dimostrare la propria vena democratica, ricucendo vecchi strappi con le altre comunità all’interno della sacca di Idlib che governa; nello specifico facendo arrivare l’acqua nei villaggi drusi della zona e mostrando al mondo le immagini di Julani (vecchio boss di Al Nusra – Al Qaeda nonchè incontrastato leader di HTS) che stringe le mani ad alcuni sceicchi drusi. Che naturalmente aveva massacrato per benino in occasioni precedenti. Dall’altro lato però ha fatto scavare lungo tutto il confine che lo separa dai gruppi di fanatici di cui sopra un fossato alto quattro metri e largo uno e mezzo che nelle sue intenzioni dovrebbe servire a fermare il contrabbando e l’ingresso di potenziali terroristi (bontà sua) nell’area da lui controllata. Se contrabbando poi significa impedire a dei poveri disgraziati che cercano di portare a casa due lire comprando qualche litro di benzina e diesel ad Idlib, dove costa meno, per poi rivenderlo spesso nelle tendopoli in cui la vita è peggio dell’inferno e guadagnarsi quel tanto che serve per mangiare un boccone, allora evidentemente c’è qualcosa che non quaglia. Ma è bene far capire con chiarezza chi ha e deve mantenere il monopolio del business. Dal confine di Bab al Hawa, tra Turchia e Idlib, passano gli unici aiuti umanitari che UN riesce a far entrare nelle zone occupate dai cosiddetti ribelli antigovernativi; HTS, che però controlla il valico, e SNA, ed è chiaro che gestirli ha la sua bella convenienza e provoca qualche contrasto. Tutto ciò fino al 10 Luglio, quando il Consiglio di Sicurezza dell’ Onu dovrà decidere se confermare o meno l’apertura del passaggio di Bab al Hawa, riaprire quelli che erano precedentemente aperti, ma che da due anni sono stati chiusi; Yarroubia è uno tra quelli e che potrebbe far entrare gli aiuti nel NES (North East Syria), praticamente ai kurdi dall’Iraq, ma le possibilità di riaprirli è davvero una chimera. Anzi, pare proprio che Russia e Cina voteranno contro anche la conferma dell’apertura di Bab al Hawa, bloccando completamente il sistema con le conseguenze che si possono immaginare. Gli effetti della guerra in Ucraina come si vede, si riflettono anche e forse soprattutto, qui. Nel frattempo e nonostante i movimenti , più minacce che altro finora, che potrebbero far pensare al peggio, la situazione è piuttosto indecifrabile, ma non parrebbe una nuova invasione turca possa essere perlomeno imminente. Certo, qui di scontato non c‘è nulla e puntuali come orologi svizzeri, alle sette del mattino due elicotteri, uno governativo da ricognizione ed uno russo bello armato fino ai denti, compaiono come avvoltoi proprio lungo il confine che delimita il territorio turco da ciò che rimane del Rojava. Altrettanto puntuali quelli che (magari sono gli stessi) controllano dall’alto la principale arteria, la M4, che attraversa tutta la Siria da est a ovest, da Yarroubia passando per Qamishlo (dove l’aeroporto è ancora sotto il controllo di Damasco e in cui i russi hanno aerei da combattimento e, appunto, elicotteri), Tel Tamer, Ain Issa, per poi proseguire per Menbj, Aleppo fino ad arrivare a Latakia e, un po’ prima, attraverso l’importante svincolo di Saraqib (mai messo in totale sicurezza da Damasco), collegarsi con la M5 Hama, Homs e Damasco. L’immenso puzzle di interessi ed intrecci che passa attraverso queste zone, non finisce qui. L’Iran, altro protagonista di questo guazzabuglio, ha recentemente spostato le sue milizie verso Tal Refaat, enclave kurda nei pressi di Afrin (occupata nel 2018 da Ankara) minacciata dalle infuocate parole di Erdogan, nella cui area ci sono un paio di villaggi a maggioranza sciita, Nubl and al-Zahraa, che ovviamente le guardie rivoluzionarie di Teheran vogliono difendere. Per ora i russi sono riusciti a bloccarli, prima che si verificassero pericolosi incidenti, ma per il futuro nessuno garantisce. Per finire in bellezza, Israele continua impenitente a bombardare un po’ dove vuole, si potrebbe dire dove c’è una maggiore presenza delle milizie iraniane o di Hezbollah, ma senza risparmiare per esempio l’aeroporto internazionale di Damasco dove si stanno riparando i danni provocati dalla recente incursione dell’aviazione di Tel Aviv. Pare che in merito nessuno abbia qualcosa da dire. Ecco, e pensare che all’inizio avrei voluto parlare di Al Tanf, altro centro di metastasi in fase di diffusione in cui di recente ci sono state scaramucce tra russi e Usa e dove oltre ad esserci una specie di “zona franca” controllata dai “soliti ribelli” antigovernativi; area protetta da alcuni vecchi accordi, all’interno della quale c’è un campo profughi, Rukban, in cui le condizioni di vita sembrano essere disumane. Non solo, ma pare che tra coloro che ci vivono, ci sia una discreta presenza dei sopravvissuti in seguito alla sconfitta militare dell’Isis, prima a Raqqa e poi a Baghuz. La zona è circondata sul versante siriano dalle truppe di Assad, ma di fatto sotto il controllo della grossa base Usa situata qualche km più in là che domina l’altra grande strada che da Damasco scende verso sud est ed incrocia i confini con l’Iraq e la Giordania. Questione che basterà per altre riflessioni su questo immenso groviglio. Me lo segnerò sull’agenda, anche se non sarà Smemoranda. Docbrino