Ragionamenti in libertà sulla gestione idrica friulana, il Cafc fa acqua e non solo dai rubinetti

Nel fine settimana scorso dal porfido di un marciapiede di via Tullio a Udine, usciva un getto continuo di acqua potabile dovuto presumibilmente alla rottura di una tubatura. A quanto pare la segnalazione al Cafc, l’ente gestore, era già stata fatta, ma il risultato è stato quello di un paio di transenne e del nastro bianco e rosso per segnalare la “sorgente” innaturale, mentre non sono stati fatti interventi immediati per risolvere il problema. Intendiamoci, non abbiamo dubbi che i lavori prima o poi verranno fatti, anche perchè, oltre alle problematiche che l’infiltrazione potrebbe creare, c’è lo spreco intollerabile della sempre di più preziosa risorsa naturale. Si tratta di un piccolo episodio che però, come tassello di un puzzle, contribuisce a costituire una fotografia che pare non essere modello di efficienza e buona conduzione tecnica almeno del livello che nella logica, retaggio di  un glorioso passato di “friulani, saldi onesti e lavoratori” ci viene spacciata solleticando l’ego del popolo che poi vedendo le bollette da qualche dubbio viene colto. Basti pensare agli sversamenti “pilotati” a Torviscosa, nel tentativo di abbassare la temperatura dell’acqua che giunge ai rubinetti a 27 gradi, perchè i tubi sono stati posizionati troppo in superficie e d’estate si surriscaldano. Insomma tutti segnali di una gestione della risorsa acqua che potremmo definire poco attenta ed in alcuni episodi decisamente pressapochista. Gestione che come è noto ha un nome preciso. Eppure la stampa locale, pur riportando i singoli episodi, fatica ad inquadrare i fatti nella loro complessità, episodi singoli appaiono insignificanti, ma se collegati fra loro ed in tutte le fasi, dalle acque potabili alle depurazioni, creano un quadro non certo positivo, per non contare che i molti investimenti annunciati sono spesso destinati a mettere “pezze” a situazioni di mancata ordinaria manutenzione quando non di errate o mal amalgamate progettazioni successive. Minimizzare non è un buon servizio al cittadino e purtroppo l’impressione è che lo stesso fanno, fatto decisamente più grave, perfino tecnici ed ambientalisti. Basti ricordare che Arpa Fvg, Legambiente e Cevi nel corso di una recente tavola rotonda, abbacinati probabilmente dalla parola green pronunciata in quel tavolo sapientemente  “a manciate” hanno plaudito al teatrino incardinato intorno a quella parolina di gran moda che genera panacea per ogni male, con una parvenza di bellezza come fanno i papaveri che crescono in un campo incolto e macchiano di colore superficiale il panorama e le coscienze ambientaliste, poco importa cosa ci sia davvero sotto. Così poco meno di un mese fa, era il 21 giugno, la tavola rotonda sui cambiamenti climatici voluta dal gestore delle acque Cafc ha snocciolato tutte le meraviglie del Report di Sostenibilità di Cafc, giunto al secondo anno di edizione. Evento che ha riunito, oltre ai soci, al consiglio di amministrazione, al collegio sindacale, alle organizzazioni sindacali, anche tecnici Arpa Fvg e ambientalisti. Cafc, che come noto è una grossa utilities a livello nazionale con i suoi 470 mila utenti, ha puntato quindi sulla parola Green, incassando il plauso dei relatori e quello della stampa che ne ha infiorato le lodi. Chissà se sono solo “chiacchiere e distintivo” infatti anche se in teoria la strada intrapresa è teoricamente quella giusta, l’operato di Cafc sull’incremento delle performances ambientali per limitare l’impatto sull’ambiente prediligendo le fonti rinnovabili, adottando i boschi, ricavando energia dai fanghi di depurazione, l’utilizzo di acqua piovana per usi extra potabili, ecc ecc, resta per ora una sorta di libro dei sogni. Il rischio che si tratti di proclami di buone intenzioni per tranquillizzare l’opinione pubblica è forte e viene da chiedersi se la realtà del servizio idrico è veramente tale o presenta criticità che si vuole mascherare o sottovalutare. Le domande sono legittime e non ci meraviglia che Cafc, che è comunque una società per azioni (anche se a capitale pubblico) cerchi di vendere la propria immagine al meglio. Il fatto che i soci che possiedono azioni della Società sono 123 Comuni, la Provincia di Udine, l’ U.T.I. della Carnia, l’U.T.I. del Gemonese e l’U.T.I. del Canal del Ferro – Val Canale è davvero garanzia che l’azienda svolga i suoi compiti con la dovuta attenzione verso i cittadini? Al lettore l’ardua risposta, infatti anche se non parliamo di una Spa votata al rapace profitto si tratta pur sempre di una società di capitale che per sua natura non può che avere una mentalità non certo di mero servizio. Quello che è insopportabile è che, probabilmente in virtù del fatto che si tratta di una società ibrida nella quale convivono diverse esigenze, i controllori, siano essi istituzionali o meno, hanno spesso cataratte che offuscano la vista o quantomeno hanno un approccio “delicato” che non avrebbero di certo se vi fosse un “padrone” ben definito. In generale è uno di quei casi generati dalla logica delle “partecipate” o società pubbliche che tanti guasti hanno generato nel paese e che sono nate per “scudare” la politica garantendo nel contempo un ottima prateria di poltrone ed incarichi. Ma tornando sul binario delle attività di gestione di Cafc, parliamo non solo dell’acqua che esce dal rubinetto e che vien da chiedersi quanto sia buona e per quanto tempo resterà tale, ma anche della gestione delle acque reflue, di quelle fognarie e industriali. Tutti elementi del medesimo sistema. Ma è l’acqua potabile che resta il bene primario assoluto per la stessa esistenza della vita  come del resto ribadito perfino il 19 aprile 2018 dall’arcivescovo di Udine, S.E. mons. Andrea Bruno Mazzocato durante la visita alla Società Cafc. In quella occasione il vescovo aveva  incontrato il personale e il C.d.A..  Occasione mediatica ghiotta per  far sentire perfino odore   di quasi santità scrivendo, perfino nell’introduzione al bilancio, una degna chiosa: “Per la prima volta nella storia dell’azienda, si legge infatti,  l’arcivescovo di Udine ha varcato la soglia della Società per apprezzare la qualità dell’attività, sia dal punto di vista tecnico, sia professionale nonché l’impegno dimostrato per la gestione di “… un bene così vitale qual è l’acqua, intesa come patrimonio sociale e simbolo per eccellenza della vita che in tutte le religioni assume una immagine di purificazione e salvezza.”  Assoluzione di tutti i peccati quindi, ma vien da chiedersi se in Friuli di quel “patrimonio sociale e simbolo per eccellenza della vita che in tutte le religioni assume una immagine di purificazione e salvezza”  ne avremo in quantità anche in Friuli e non solo per le spesso inevitabili perdite degli acquedotti. Risulta infatti che la rete idrica di Cafc per buona parte della provincia di Udine- -montagna esclusa – sia rifornita da quattro-cinque grossi impianti di prelievo dalle falde sotterranee e con limitati prelievi da sorgenti montane. Questi punti di prelievo ad uso potabile danno tutte le garanzie di poter fornire nel tempo acqua di buona qualità ed in quantità sufficiente? Se dovessero manifestarsi delle criticità, non escludibili visti gli sconvolgimenti climatici in atto, per qualcuno di questi punti di prelievo, quale situazione potrebbe prospettarsi? Si spera che l’ente gestore avrà i suoi piani per garantire il servizio in ogni eventualità, speriamo non attraverso autobotti di cui pare si stia ulteriormente dotando, ma di questo non si è a conoscenza pubblica e non viene data informazione. Se questi piani fossero noti – almeno in grandi linee – ci sarebbe da stare più tranquilli. Guardando la situazione con spirito critico ma non pregiudizievole, è palese che gli impianti di Artegna e di Zompitta, che di fatto prelevano in modo superficiale l’acqua dalle falde alimentate dal Tagliamento e dal Torre, sono situati a valle di zone antropizzate e anche con insediamenti industriali, con i relativi impianti di depurazione che indubbiamente operano in piena efficienza e rispetto delle norme, o almeno così dovrebbe essere. Salvo possibile emergenze, ovviamente, basti pensare che, semplicemente e guardando la cartografia regionale, che l’impianto di Artegna sembra proprio sia attraversato dall’oleodotto che da Trieste va in Germania. Consideriamo che quella friulana soprattutto in quelle zone non si può considerare “terra ferma” e che nella malaugurata evenienza di un sisma, l’ipotesi di una rottura della tubazione resta una eventualità che non si può tralasciare. Principio di precauzione vorrebbe che essendo in una zona ad elevata sismicità si valutasse il rischio, cosa potrebbe comportare per le falde uno sversamento massivo di idrocarburi? Vi sono alternative per il rifornimento idrico? Forse nei convegni celebrativi e nei comunicati autoreferenziali dell’ente gestore anche di questo si dovrebbe parlare oltre che di adottare i boschi. Ovviamente in epoca di comunicazione infiocchettata la rassicurazione passa evidentemente più attraverso i fumi che l’arrosto. Basta che si faccia sentire profumo di sicurezza e di efficienza ed il gioco è fatto. Recentemente, ad esempio, è stata data grande enfasi alla riattivazione della centrale idroelettrica costruita da Arturo Malignani all’inizio del secolo scorso, da parte di una società privata. Ammirevole iniziativa “culturale” accolta in pompa magna, se non fosse per il fatto che l’operazione limita notevolmente il potenziale prelievo d’acqua ad uso potabile nell’alta valle del Torre, dove in passato è stata realizzata una opera di derivazione che poteva rappresentare una valida alternativa all’impianto di Artegna.
Ironia della sorte, la società che ha realizzato l’impianto idroelettrico è sostanzialmente costituita da una impresa che opera per Cafc e la progettazione e la gestione dei lavori è stata fatta da una società d’ingegneria che recentemente ha acquisito da Cafc incarichi per lavori ultramilionari e che il comune di Lusevera che ha promosso l’iniziativa è socio di Cafc.
Intendiamoci, nulla di illegittimo ne quantomeno illegale, almeno fino a prova contraria, si tratta in sostanza di un caso di lungimirante progettualità in allegra sinergia. Consideriamo anche che la Regione FVG, che con il piano di tutela delle acque non concede più derivazioni ad uso idroelettrico, ha di fatto assecondato, in nome della storia illustre di Maligani, tale iniziativa
concedendo tale derivazione e trascurando il primario uso potabile delle acque. Sarà sta fatta una valutazione “costi” benefici? Crediamo di no. Ci viene da pensare cosa ne potrebbe pensare il valente inventore che di certo era attento ad ogni aspetto della progettazione avendo in mano tutti i dati. Forse avrebbe preferito che la sua centrale rimanesse uno statico monumento. Il dramma infatti è che ormai ogni corso d’acqua della nostra montagna è soggetto a derivazioni – piccole o grandi che siano – per la produzione idroelettrica, in gran parte in mano a privati che ne hanno fatto un business grazie all’inettitudine diventato fattore storico della politica friulana. Sembra che a nessuno interessi l’uso primario dell’acqua, forse perché le tariffe del consumo idrico al momento non sono molto remunerative mentre lo sono ancora quelle della produzione idroelettrica. L’auspicabile realizzazione di una rete idrica interconnessa nella zona di montagna dovrà scontrarsi con queste realtà e sarà di difficile attuazione. Ancora più difficoltosa appare la possibilità di alimentare le reti idriche della pianura con le abbondanti acque prelevate per uso energifero nella montagna friulana. Le reti idriche dei comuni della bassa pianura friulana – esclusi quelli dei popoli delle fontane – sono alimentati dagli impianti di Codroipo e di Gonars, anche questi non esenti da possibili criticità nonostante la profondità dei pozzi da cui attingono l’acqua: basta guardare i grossi filtri che si vedono all’estemo dei due impianti a cui l’ente gestore deve ricorrere per garantire le caratteristiche dell’acqua distribuita. L’impianto di Codroipo alimentato dalle falde del Tagliamento, è situato a pochi chilometri a valle della zona industriale di Pannelia che indubbiamente rappresenta un pericolo anche se solo potenziale. In sostanza sarebbe interessante conoscere quali siano le attività di monitoraggio che vengono effettuate sugli impianti di alimentazione delle reti idriche e sulle relative zone di ricarica, anche con riferimento agli inquinanti emergenti, le cui analisi parrebbero ancora insufficienti per una seria valutazione dei rischi. Ma cosa volete, basta che il cittadino sia rassicurato. Ma non basta come ha fatto Sandro Cargnelutti, Presidente di Legambiente FVG, auspicare che il Piano di Sicurezza delle Acque (WSP) non coinvolga soltanto gli enti gestori, bensì coinvolga anche i cittadini, uscendo sul territorio, è necessario che sulla questione venga fatta massima mobilitazione non accontentandosi dalle vetrine gentilmente offerte dai gestori di impianti e reti, ne tanto meno affidarsi agli improbabili controlli che generano “bandiere blu” o patenti di qualità. Basti pensare alla vicenda dei depuratori, che non sono “altra” storia” rispetto alle acque potabili. Ma di questo torneremo a parlare presto.