Un intruso cattivo era dentro di me. Ora non c’è più grazie alla scienza e alla sanità pubblica. Ma la battaglia è lunga e il tunnel per uscirne sarà lungo
Caro Direttore torno a scriverti e ribadisco che non avrei mai pensato di dovere inviare lettere a me stesso, ma così è la vita. Eravamo rimasti alla decisione di rendere noto quanto mi stava accedendo perché, scrivevo poco più di un mese fa e confermo oggi, ritengo corretto rompere uno dei tabù che alimentano la paura in chi si trova all’improvviso nel vortice di una malattia considerata erroneamente incurabile. Per chi non avesse letto il mio precedente scritto personale mi riferivo ovviamente a quello che per anni è stato tabù solo nominarlo: tumore… cancro. Comunque lo si chiami, ribadisco, uno spettro sinistro che quando ti viene diagnosticato, spesso in maniera casuale perché asintomatico, diventa un chiodo devastante nel cervello, una spina che cerca di sopraffare la tua ragione prima ancora del corpo. Ovviamente una delle prime domande che si affacciano nella mente appena ricevuta la diagnosi di un tumore è una e drammaticamente sintetizzabile in una paura interiore: morirò? Cerchi di esorcizzarla questa domanda con la forza della ragione, ma è umano avere paura. A quel punto la risposta assolutamente individuale è caratteriale, c’è chi si deprime, chi finge di ignorare, chi reagisce cercando soluzioni. Di certo non serve non pensare alla malattia, non parlarne e comportarsi quasi come se non ci fosse, tenersi tutto dentro è una reazione spesso comune ma deleteria, anche se c’è sempre la paura di sentirsi isolati, portatori di uno stigma. Ma in realtà la cosa più difficile è convivere con l’incertezza perché il tumore irrompe nella vita come uno tsunami che sembra travolgere tutto: lavoro, affetti, progetti, sforzi e prospettive. Poi arriva la consapevolezza che devi combattere e che oggi ci sono strumenti più efficaci e che la scienza medica rende quella parola “inguaribile” sempre meno reale e che comunque il tumore non è mai incurabile, almeno finché, cinicamente parlando, morte non vi separi. Questo ti dice la ragione, ma dentro di te la paura di morire resta latente e come un tarlo ti fa vivere un malessere persistente anche se magari esorcizzato dai comportamenti esteriori. Ora però sono passato alla fase successiva, il 19 marzo ultimo scorso, esattamente un mese fa, sono entrato in sala operatoria. Non è certamente stata una passeggiata ma l’alien che cresceva dentro di me è stato asportato. Ma ovviamente non è finita e tanti dubbi e paure permangono. I giorni di attesa perché arrivasse l’esito dell’esame istologico sono stati complicati, anche se il probabile esito mi era stato già annunciato, vi era sempre la speranza che il cattivone fosse meno malefico del previsto. Vana speranza dato che la visita oncologica e il referto hanno confermato quello che dentro di me sapevo. Il tumore asportato era maligno e notizia ancora più negativa era al terzo stadio (cioè si è diffuso ai tessuti circostanti e ai linfonodi vicini) e che anche se asportati potrebbero fare recidive o peggio intaccare altri organi. Il quarto ovviamente sarebbe stato devastante. A vedere il bicchiere mezzo pieno non dovrò fare chemio o radioterapia perché potrebbe farmi più danni sistemici che benefici. In aiuto vengono i protocolli di prevenzione che, si voglia o no, ti fanno entrare psicologicamente in una sorta di roulette russa. Almeno così io la percepisco e l’idea che la ragione respinge di essere un morto che cammina resta malefico sfondo di quello che filosoficamente viene definito “pensiero negativo” che, inutile nasconderlo, spesso diventa condizione deprimente. L’eventuale riacutizzarsi della malattia è da contrastare attraverso controlli frequenti (colonscopie ulteriori, tac con mezzo di contrasto, eco ed analisi del sangue dei marcatori tumorali) tutte cosette rese complicate dagli incerti tempi d’attesa che l’ormai claudicate sanità pubblica impone. Unico dato positivo, si fa per dire, i controlli saranno esenti da ticket anche se per attivare l’esenzione ci si deve recare, piccola punizione imposta dalla burocrazia, con il referto dell’oncologia al distretto sanitario per la registrazione del tuo nuovo stato. Nell’epoca del tutto digitale sembra davvero anacronistico che l’ospedale non dialoghi direttamente con l’azienda di cui fa parte. Ovviamente per la guarigione o meglio aspettativa di vita, si gioca sulle percentuali (a un anno, tre, cinque o poi libero) più che su certezze cliniche sono numeri statistici. Da qui il paragone con la roulette russa, così tutti coloro che entrano nel tunnel diventano novelli personaggi del film “Il cacciatore” e qualcuno alla fine ci rimane perché in realtà ti considerano fuori pericolo “progressivamente” quando il tamburo della sei colpi ha esaurito i suoi giri senza fare bang. Un bel tarlo psicologico che lavorerà nel cervello e che cercherò di metabolizzare, anche se non sarà percorso semplice.
Fabio Folisi